Vivere o morire?
Nelle discussioni fra clinici o semplicemente nell’ambito di una riflessione personale sui casi in cura, ci si interroga spesso sul mistero della così detta “pulsione di morte”, termine utilizzato per indicare tutti quegli atteggiamenti autodistruttivi (di grado variabile per pervasività e intensità) che minano la vita di un essere umano, tormentandola, umiliandola, svuotandola di senso.
Mistero a lungo indagato dal fondatore stesso della psicoanalisi, perplesso di fronte ad atteggiamenti del tutto contrari a quello che lui definiva “principio di piacere”, ovvero la tendenza dello psichismo umano ad evitare il dispiacere in virtù di situazioni gratificanti. L’inevitabile frustrazione incontrata sulla via del piacere Freud la collegava allo sviluppo del “principio di realtà”, cioè alla capacità di differire il piacere, quindi alla possibilità di sopportare la delusione mantenendo una certa quota di fiducia nelle possibilità future.
Dove si colloca in questo discorso l’andare deliberatamente incontro al dispiacere? Il meccanismo, il cui punto di innesco lo si rintraccia spessissimo in una frustrazione a livello della realtà oggettiva (un rifiuto, un abbandono, un lutto, una malattia invalidante ecc...) radicalizza la reazione di dispiacere al mancato piacere, nell’impossibilità di attivare il principio di realtà.
Detto in parole più semplici: che le cose non vadano come si vorrebbe non lo si accetta al punto tale da assolutizzare il dolore della perdita, cristallizzando la reazione di dispiacere alla mancata gratificazione. E il dolore psichico, non contenuto dal “basta” imposto dal principio di realtà, ribolle e ringonfia fino a diventare una potenza autodistruttiva, paradossalmente essa stessa fonte di un piacere perverso. Il piacere non conquistato per via diretta lo si raggiunge cosi, per la via del dolore mentale, del male fisico, del buttarsi via.
Non è dunque la frustrazione a scatenare la reazione autolesionistica, ma l’impossibilità di accedere o di arrendersi allo “stop” imposto dalla vita. La qual cosa non significa resa passiva, ma pura presa d’atto rispetto all’impossibile.
Il principio di realtà non a caso si gioca in due tempi. Il tempo uno é quello della sottomissione al no, ma esiste anche un tempo secondo che è quello della fiducia in un sì futuro. In una parola il tempo due si lega alla speranza, anche illogica, anche irrazionale, che qualcosa di bello ancora potrà accadere.
Questo tempo due é anche il tempo in cui il piacere viene recuperato per via non patologica. Il piacere di ciò che resta, di quel che c’è, di quel che è. Ancora, nonostante la perdita. Che non inibisce l’azione, anzi, la rilancia. Benché la sua radice stia non nell’agire ma nella contemplazione, nella disposizione a farsi prendere dalla vita, dal suo sapore incomprensibile sul piano della ragione ma percepibile dal gusto per le piccole cose.
Il piacere di vivere, di respirare, di esserci. Anche nella menomazione dell’amore perduto, della malattia invalidante, della bellezza sfiorita, delle morti, delle innumerevoli frustrazioni a cui può andare incontro la nostra precaria esistenza.
I pazienti con tendenze autolesionistiche ci raccontano spesso di sapere perfettamente di farsi del male coltivando certe pratiche, eppure non riescono a fermarsi. Come se non volessero più che non potessero fermarsi? Come se. Perché, proseguendo nell’indagine, il punto davvero misterioso lo si trova qui. Allo “stop” , al tempo uno dell’accettazione, questi pazienti non cedono perché non possono abbandonarcisi o perché non vogliono? Non possono fare il lavoro del lutto o non vogliono mollare per narcisismo sfrenato e caparbietà (che entrambi poi sottendono fragilità egoiche evidenti) ?
La questione, così complessa, sembra non riguardare la volontà. Qualcosa ha reso queste persone vulnerabilissime alla ferita narcisistica imposta dalla perdita. A volte non troviamo nemmeno tracce di rabbia, tappa intermedia far il dolore e la resa. Come se il dolore rimanesse appiccicato addosso come un veleno mortale, non potesse essere buttato fuori, esteriorizzato sotto la forma del’arrabbiatura verso tutto e tutti, verso la sorte ecc...
La rabbia, benché se incistata sia una forza alla fin fine anch’essa autolimitante, ha un indubbio valore perché spinge verso una resa non passiva, anche qui in una tensione mai pacificabile una volta per tutte. Di fronte a certi accadimenti drammatici della vita l’accoglienza radicale che non cede mai al ritorno della malinconia o della rabbia è una virtù rarissima. Il principio di piacere nella sua forma più perentoria bussa spesso alla porta di un’anima ferita.
Ma quest’anima, se in grado di cedere e di aprirsi ad Altro, sarà salva. Lontana anni luce dalla tentazione mortifera del dolore-piacere e aperta alla dimensione dell’amore incondizionato. In un circolo virtuoso che se praticato con costanza e consapevolezza finisce per autoalimentarsi.
Come aiutare i nostri pazienti che invece dall’altro lato restano impigliati in circoli distruttivi? Altro punto discusso e che non trova una risposta nell’esercizio di una tecnica o di una manovra precostituita. Questa difficile arte può essere esercitata a partire dalla disposizione stessa del terapeuta ad accogliere l’inaccoglibile nella propria vita. Che si tradurrà in ascolto del suo paziente, senza schermi, senza fughe di fronte all’insensatezza e alla pericolosità delle sue condotte. Sapendo che stare lì non significa onnipotenza e delirio di guarigione, al contrario testimonianza di umiltà, di resistenza nella miseria, di amore che accoglie, che accompagna e che non chiede di guarire.