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La “patologia” dell’esclusione

Il vissuto di esclusione, quando portato all’eccesso, ha un potere devastante nelle vite di chi lo patisce. In questi casi infatti la banale e comune interrogazione rispetto al proprio valore agli occhi degli altri viene estremizzata, così da diventare la prima preoccupazione rispetto a tutto, scelte, frequentazioni, attività. A discapito dell’espressione autentica di se stessi.

 Ogni cosa viene non solo passata al vaglio del giudizio altrui, ma esso viene pure interpretato pregiudiziosamente come negativo e denigratorio (sulla base di segni minimi e trascurabili di non attenzione). Il dolore e la frustrazione che ne derivano sono intensissimi, al punto da sconvolgere burrascosamente l’equilibrio emotivo e da interferire significativamente anche con la vita sociale e lavorativa.

Femminilità ed esclusione

Il genere femminile é quello maggiormente esposto a tali accessi emotivi, scatenati dall’idea del rifiuto e dell’esclusione. La femminilità, intesa come ricettività, apertura, sensibilità all’Altro (e dunque in quanto tale anche attributo di certi uomini) rende più vulnerabili al rimando da parte del simile. Tale sensibilità si trasforma in ipersensibilità “invalidante” se a livello inconscio si è sedimentata l’idea di non essere sufficientemente desiderabili, nonostante le doti, i talenti, i riconoscimenti.

Una critica, un appunto, un gesto, un’espressione del viso, un semplice stato emotivo negativo o una distrazione da parte del primo specchio fondante l’identità (la madre) possono inconsciamente provocare una distorsione mentale dell’immagine di sé.

A questo livello non sono in gioco rifiuti drammatici, assenze di cure, maltrattamenti come nei quadri melanconici. Lo sguardo della madre non è del tutto assente, al contrario irraggia. Ma è come se il flusso di tale irraggiamento per un momento si interrompesse. Il dubbio si insinua, l’immagine di sè viene segnata da una macchia indelebile, che nulla potrà cancellare.

Certe richieste di attenzione si fissano così, a partire da quella macchia, ingigantita a dismisura. In tal modo la futura adulta che patirà di un senso perenne di esclusione già da bambina comincia ad alternare le vesti di due personaggi, sempre per ottenere riconoscimento dall’Altro. Da una parte quelle della bambina perfetta, brava e buona e compiacente, dall’altra quelle della “peste”, della diversa, della problematica. In questo secondo caso il supposto atteggiamento oggetto della altrettanto supposta critica viene provocatoriamente ostentato, per tentare di integrare il presunto difetto nel resto dell’immagine. “Se mi accetteranno così allora finalmente andrò bene!” Peccato che nuove e spesso reali critiche seguiranno, rinforzando la distorsione in un circolo vizioso.

Le relazioni speculari

Le dinamiche in queste situazioni sono sottili, mai sganciate dal discorso amoroso ma impaludate nella rivendicazione di una convalida da parte dell’Altro. Negli anni la situazione non migliora. Nelle amicizie, con i fidanzati, a lavoro. Il tema è sempre lo stesso, l’esclusione, il non andare bene, il non essere viste abbastanza.

La relazione che viene instaurata con l’Altro infatti non si emancipa mai dalla questione del riconoscimento. Per riparare al vissuto di inadeguatezza esistono nella vita di queste persone dei partner “privilegiati” (siano essi amici, amiche o fidanzati) con i quali si instaurano delle relazioni intensissime all’insegna del “maternage”, in un chiaro tentativo di ricomporre lo specchio. Ora però tali relazioni “speciali” sono esposte a tutte le turbolenze relative all’immaginario: l’immedesimazione non può essere mai totale, così le delusioni sono dietro l’angolo e l’idillio prima o poi si rompe.

Scatenamenti

Lo scatenamento delle crisi di esclusione e del relativo senso di smarrimento e di perdita di identità avviene spessissimo proprio in coincidenza delle rotture di questi rapporti speciali. Persi i punti solidi di rispecchiamento, se vengono a mancare validi sostituti (la sostituzione è una modalità frequente per risolvere la rottura dell’idillio) si aprono voragini di insicurezza.

Ciò in una logica non psicotica. Infatti, se superficialmente la dinamica dello scompenso successivo alla rottura della relazione immaginaria è identica a quella dei quadri di psicosi, nelle situazioni descritte la follia che si sprigiona è di marca nevrotica, con tutto il tipico vittimismo, l’esagerazione e la richiesta di attenzione che debordano anche in terapia.

Orizzonte terapeutico

Sul piano psicoterapeutico osserviamo successi nel breve termine; la relazione speculare si ricompatta grazie al rapporto con il terapeuta, nuovo agente di stabilizzazione.

La precarietà di questi risultati però va vista: nulla cambia nell’assetto di base della persona, che prolunga il maternage nella stanza del terapeuta, per brevi periodi quando viene ritrovato un partner “speciale” fuori, per lunghi anni quando l’unico appiglio resta l’analista.

Situazione diversa se invece la terapia si trasforma in un luogo di ricerca, in cui, al di là delle connotazioni transferali, viene riconosciuto il ruolo della relazione speculare e si acquisita nel tempo una modalità diversa di rapportarsi a se stessi e all’Altro, non più all’insegna della dipendenza ma del confronto fra unicità che non hanno la pretesa di uniformarsi.

Stadio dello specchio