Amore materno e distruttività
L’amore materno dà la vita, e ciò è universalmente riconosciuto. Le cure, le parole, la presenza della madre sono mattoni fondamentali su cui si verrà a costruire un possibile futuro equilibrio psichico.
Ma esiste pure un lato oscuro del suddetto amore materno, di cui normalmente non si dice nulla e che viene confuso con la cura, con la dedizione, dunque con il Bene.
La grande Madre
Chi ha subito questo tipo di amore fatica anche a parlarne, inevitabilmente subentra un forte senso di colpa che offusca persino il riconoscimento delle dinamiche patite. Come si fa ad accusare di prevaricazione la madre, colei che ha dato la vita? Come si fa ad accogliere una verità dolorosissima, ovvero quella dello schiacciamento “a fin di bene” operato sistematicamente fin dalla prima infanzia da parte della propria madre?
In molti dunque soccombono all’amore materno, in un’impossibilità di staccarsi dalla madre reale, sopravvalutata come una dea. Il soffocamento di ogni moto d’odio e di ribellione nei suoi confronti può decretare una sorta di “morte psichica”, che condanna a non sviluppare mai pienamente una personalità o un’affettività autonome.
E non va molto meglio neppure per chi osa sottrarsi all’influenza della “grande madre”: ella farà di tutto per far pagare l’insubordinazione, lo farà con i mezzi più svariati, dai ricatti emotivi agiti più o meno sottilmente alle ritorsioni dirette. L’obiettivo è piegare il ribelle e ricondurlo all’ovile, dove ella può ricominciare ad esercitare il proprio potere.
D’altro canto, cos’é una madre “tutta madre” senza il suo ruolo? Se perde i suoi figli cosa resta di lei? Non rischia di non essere niente? Di tornare a quel niente a cui la maternità aveva fornito una soluzione concreta?
La linea di confine
Importante è allora andare a vedere dove stia la linea di confine fra amore che dà vita e amore che mortifica, quali siano le condizioni perché il primo non esiti nel secondo, perché il balsamo della cura non si trasformi in veleno.
Il punto sembra risiedere nell’identificazione totale della madre alla madre stessa. Molta parte della psicoanalisi assegna un ruolo importante al desiderio della madre. Nella misura in cui questa desidera altro rispetto al figlio (magari il marito o un lavoro), è aperta ad una dimensione che va oltre il suo essere madre, allora il figlio non corre il rischio di venir fagocitato. L’appagamento viene trovato altrove e il piccolo può sgusciar fuori dalle sue fauci di coccodrillo, tenute spalancate dal paletto del desiderio.
Tuttavia la pratica mostra una complessità non riassorbibile pienamente nella teoria. Esistono madri che, pur vitali, pur appassionate e piene di interessi autentici, pur non rinunciando alla femminilità, pur amando il compagno, mantengono un assetto “ tutta madre” , un modo d’amare manipolatorio e asfissiante.
La limitazione data dall’avere un desiderio forte che vada oltre i figli non sembra sufficiente. Sicuramente la presenza di un desiderio vero (vissuto come vocazione, come chiamata rispetto ad un compito che trascende l’individuo) limita il potere di controllo dell’Io e distoglie da una onnipresenza.
Ma esso non basta, il terreno su cui indagare sembra essere più vasto e avere a che fare con modalità di rapporto all’altro improntate al rispetto della sacralità e del mistero insito in ogni creatura vivente.
Un approccio verso il simile fondato sul rispetto, sulla curiosità e sull’apertura verso la differenza lo si trova negli individui a prescindere dal fatto che siano o meno soggetti di desiderio. Il desiderio, come si sa, é sì una forza che sicuramente “divide” e toglie padronanza, ma è anche vero che preso nella sua “purezza” può spingere verso azioni folli o può finire per ricompattare proprio la faglia da cui era scaturito.
Inoltre nella sua essenza il desiderio oggettifica l’altro, mentre è l’amore che lo rende pienamente soggetto, lo riconosce cioè nella sua particolarità non assimilabile ai propri schemi, desideri, aspettative.
Esistono donne semplici, incolte, magari anche minate dalla solitudine e dalla povertà, donne prive di desideri e di passioni che tuttavia sanno esercitare l’arte della Cura, sanno sostenere senza insistere, sanno accogliere il “difetto” e l’irregolarità dell’altro in un clima di fiducia verso le sue potenzialità.
Mentre al rovescio nella clinica e nella vita vediamo molte donne che di desiderio ne hanno da vendere, che creano, che amano, che vivono una vita dinamica e ricca ma che nel contatto con il loro bambino (pur nel poco tempo libero a disposizione) non riescono a non risultare asfissianti e ipercontrollanti.
Il grande Mistero
Divenire madri espone le donne al rischio dell’onnipotenza. “Ti ho fatto dunque sei mio, dunque so chi sei, cosa è bene per te” è il mantra inconscio di molte. Per rinunciare a questo potere bisogna allora non semplicemente essere bucati dalla presenza di un desiderio o di una vocazione forte, ma intrattenere un certo tipo di rapporto nei confronti della dimensione trascendente.
Allora l’amore verso la creatura sarà squisitamente e genuinamente disinteressato, nella misura in cui la madre stessa sarà in grado di reperirsi creatura e non creatore. Un semplice e misero mezzo attraverso il quale una potenza più grande agisce, potenza misteriosa, che possiamo chiamare Dio, Natura, Energia, Mistero ecc...
Ecco che solo seguendo più o meno consapevolmente questo percorso “spirituale” diventa possibile per una madre deporre lo scettro, disidentificarsi dal ruolo e vedersi come un semplice essere umano al servizio di qualcosa che non conosce, il cui fondo resta insondabile e ricco di incognite.
L’amore che dà vita è questo. Cura, sostiene, ma non trattiene. Protegge ma solo per rendere possibile il volo. Il grande ha in più rispetto al piccolo solo le dimensioni, solo il grado di sviluppo della sua materia vivente, non certo l’anima.
Acquisire consapevolezza di ciò può aiutare a cogliere fino in fondo l’alto compito di esser madri, che non darà soddisfazioni di “ritorno” in termini di prestigio o di possesso ma che al contrario donerà la pura gioia immateriale e strutturalmente “povera” di fronte al librarsi in cielo della creatura.