Ipersensibilità al rifiuto
Il rifiuto da parte del proprio simile è lo spettro che molti si trovano a temere più o meno coscientemente. In ogni contesto e gioco relazionale si aspettano di venir esclusi, emarginati, presi in giro. È più forte di loro: si sentono diversi e vivono la loro diversità come una colpa, un difetto anziché come una ricchezza (magari ingombrante) da saper portare con una buona dose di sano orgoglio ed autoironia.
La paura del rifiuto genera rifiuto
Generalmente la paura del rifiuto è indipendente dal grado di accoglienza manifestata da parte dell’ambiente. Chi ne soffre se da un lato gioisce di un sorriso o di una parola gentile e aborrisce più di qualsiasi altra cosa al mondo un ambiente ostile e competitivo, dall’altro anche quando riceve manifestazioni di interesse interiormente continua a tremare, aspettando il momento della doccia fredda che prima o poi inevitabilmente arriverà.
La frustrazione infatti non è aggirabile, è conseguenza, oltre che della concorrenza aggressiva, patetica ma ahimè profondamente umana fra simili, anche del puro fatto che gli uomini, pur aperti alla relazione, vivono nella separatezza del proprio corpo e della propria mente. Dunque non possono essere sempre “connessi” all’altro, anche volendolo. La vita di ognuno di noi impone momenti di assenza, di distrazione, di concentrazione su altro o altri. Chi teme l’esclusione interpreta (per lo più inconsciamente) ogni sguardo dell’altro rivolto altrove come segno inequivocabile di antipatia, disinteresse o superficialità.
Accade quindi che, nell’attesa di una siffatta emarginazione, vengano messi in campo degli atteggiamenti di difesa “preventiva”, che però finiscono poi col realizzare (anziché scongiurare) l’eventualità temuta.
Tipicamente essi comprendono la chiusura, lo stare sulle proprie, il non cercare un contatto esibendo una falsa autosufficienza. La decodifica sul versante dell’altro è “disinteresse alla relazione”, a cui segue un rivolgersi altrove. La profezia del rigetto si auto avvera.
Abbiamo poi un'altra modalità difensiva ma altrettanto fallimentare, ossia quella della forzatura: “se ti costringo a vedermi non potrai certo ignorarmi!”. Allora ecco tutta una serie di provocazioni, scene buffe, istrionismi di vario genere finalizzati a colpire, a catturare lo sguardo dell’altro. Destinati anch’essi allo scacco, alla mala interpretazione, all’equivoco e ovviamente, infine, al tanto paventato ripudio.
Le cause della paura
Ma perché tanto orrore? Da dove deriva quella che in taluni casi si delinea come una vera e propria fobia se non addirittura una sorta di delirio transitorio di persecuzione?
Alla base, come abbiamo accennato, troviamo profondi sentimenti di auto svalutazione, originati dalla percezione protratta nel tempo dell’infanzia di una qualche diversità rispetto alla norma. Non sono infrequenti fenomeni di bullismo in età scolare, così come rimproveri e più o meno sottili denigrazioni reiterate in famiglia.
Ma non è patogena soltanto la sensazione “negativa” di sé mutuata da esperienze precoci. Lo è anche quella troppo “positiva”, ovvero l’esaltazione continua delle proprie presunte qualità avvenuta da parte di un genitore e magari parallelamente anche dal contesto scolastico. Il bambino “prodigio”, schiacciato dalle attese dell’altro, sarà condizionato da adulto dal plauso dell’ambiente; se esso viene meno, per qualsiasi inezia, si apre il baratro già vissuto in passato, letto nella delusione negli occhi di mamma o papà quella volta che la propria soggettività fanciullesca veniva a cozzare con il loro ideale.
Sia al bambino “rifiuto” che a quello “gioiello” (può anche accadere anche che dall’uno si passi all’altro a seconda del capriccio dell’adulto) viene negata la possibilità di un amore che tenga conto del loro “reale”, ovvero della loro vitale imperfezione, del loro essere semplicemente bambini.
È infatti dallo specchio di quell’amore che deriva il così detto amor proprio, quella fiducia in sé che limita le oscillazioni fra sentirsi una “merda” o credersi un “dio”. E che, di riflesso, impedisce di vedere nel volto dell’altro un mostro che fa del male, che umilierà e abbandonerà o al contrario un salvatore sempre amorevole e costantemente disponibile.
L’adulto che si porta nell’animo questi vissuti avrà delle difficoltà non solo a livello sociale ma anche in amore. Potrà scegliere un partner perché rassicurante, perché buono e sicuro, rinunciando magari al suo desiderio (che lo espone maggiormente al pericolo del rifiuto), oppure potrà finire nella morsa di un legame totalmente ambivalente, come lo era stato il rapporto con i suoi genitori.
Approccio terapeutico
Un lavoro di analisi in queste situazioni aiuta notevolmente, non tanto perché possa ripristinare una fiducia di base a cui non si arriverà mai, quanto perché renderà progressivamente consapevoli del fenomeno e impedirà in parte di scivolare pesantemente nei citati circoli viziosi e nelle profezie auto avveranti.
L’amore di transfert non può sostituirsi all’amore malato dei genitori, però, mobilitando intense cariche affettive, può far vivere qualcosa di diverso, può far incontrare una risposta da parte dell’Altro del tutto inattesa, in ogni caso in contro tendenza rispetto alle aspettative e ai fantasmi in gioco.
L’analista non è riduttivamente uno specchio che restituisce un’immagine positiva di “bravo bambino”. Anzi, se sulla sua figura vengono proiettati tutti i timori e le angosce infantili la sua risposta divergerà da quella attesa nella misura in cui saprà essere “vero”, non falso, non artificioso, quindi nemmeno pacificante a tutti i costi.
Si produrrà così una progressiva tolleranza della frustrazione insita in ogni rapporto, data dalla non coincidenza collosa fra simili che poi tanto simili non sono. Nella parola che incontra un ascolto neutrale benché vivo ci sono tutti i germi di una futura ripresa nel domandare, nell’andare verso l’altro tollerando l’angoscia, senza aspettarsi troppo, né rifiuto né protezione. Cogliendo quelle rare, fortunate circostanze in cui si produce la scintilla della simpatia gratuita e dell’amore.