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La conquista di stare con se stessi

Per come siamo abituati a vivere, l’immobilismo psico-fisico prolungato è una dimensione che non conosciamo, se non nelle forme negative della noia o della chiusura depressiva. Abbiamo infatti sempre qualcosa da fare, qualcosa con cui “ammazzare il tempo”, che sia il lavoro, lo sport, lo shopping, la socialità. Le nostre giornate non sono semplicemente scandite dagli impegni, ma letteralmente riempite da essi, in una moltiplicazione di stimoli che ci euforizzano e stordiscono.

La maniacalità diffusa

Tutta questa iper sollecitazione mira infatti a distoglierci dalla noia, a illuderci con l’offerta di immagini accattivanti, a sedurci con la promessa di guadagni, di bellezza e felicità. Così che le potenzialità del tedio nei termini di via d’accesso al pensiero profondo sono inibite, suturate dagli scacciapensieri, dall’adrenalina, dalla scarica di piacere.

Inoltre ogni soluzione maniacale basata su accelerazione, positività e gaudio incontrollati va sempre incontro a brusche frenate, dovendo cedere  periodicamente il passo al suo rovescio, alla paralisi, alla depressione, allo scontento. Così che ci ritroviamo nelle nostre vite quotidiane a ondeggiare su montagne russe, perché la giostra ogni volta deve ripartire più velocemente, più  freneticamente. Se l’effetto della droga passa, per ritrovarlo bisogna rafforzare le dosi, spingersi oltre, eccedere.

Il rimedio di massa all’infelicità umana offerto dal nostro sistema capitalistico ci rende quindi tutti quanti malati, drogati e maniaci depressi, dipendenti ed esausti. Ma soprattutto ci instupidisce, privandoci di spessore e consapevolezza, allontanandoci da una via costruttiva per accostare il grande problema esistenziale che ci affligge.

Certamente siamo performanti, sappiamo tutto, siamo brillanti e competitivi (chi più, chi meno). Però cosa ce ne facciamo di tutte queste informazioni che accumuliamo se poi non sappiamo come usarle perché accecati dai nostri paradisi artificiali e dal culto dell’ego?

Non possiede più saggezza un ignorante contadino di campagna, attaccato alla terra e alle sue implacabili regole? Non ha in questo momento storico più strumenti di noi per fronteggiare psichicamente quanto sta accadendo? Non ci siamo ridotti alla condizione di bambini viziati così impauriti da tutto ciò che fa breccia nel nostro teatrino di sciocchi miraggi da reagire di fronte ai grandi problemi soltanto attraverso la negazione o il panico?

La debolezza della legge

Ecco perché in questi giorni la richiesta di non uscire di casa da parte dei nostri politici non accoglie l’adesione spontanea di una fetta impressionante di popolazione. Essa infatti fa appello alla dimensione della legge, che comporta temperanza rispetto alle pulsioni, accettazione del limite, principio di realtà, moderazione e rinuncia per il bene comune.

Ma come fa ad attecchire facilmente  un invito simile se fino a ieri dominava un sistema basato sulla scarica pulsionale, sul mito del corpo ginnasticato e invincibile, sull’occultamento della ferita dell’esistenza? Una società che cancella l’idea della malattia e della morte, sempre in bilico tra euforia e terrore come può prontamente reagire all’idea del virus mortale in libera e incontrollata circolazione?

La paura forse può fungere da incentivo per comportamenti virtuosi, ma sappiamo come essa possa al contrario spingere verso atteggiamenti scomposti. La repressione in questo scenario sembra profilarsi come il solo rimedio possibile all’intemperanza e al menefreghismo. Mentre le case diventano luoghi ancora più carichi di tensione, condensati esplosivi o implosivi a seconda che prevalga la reazione infuocata o depressiva.

Abbiamo quindi la necessità, per fronteggiare lo spettro della morte,  di focalizzare degli strumenti alternativi alla coercizione. Per questi ci vorrà tempo e sarà la storia a decidere rispetto ad un loro possibile avvento.

La necessità di stare

Intanto nel nostro piccolo dobbiamo re imparare a stare con noi stessi, bilanciando il rimedio dell’azione (nettamente ridotto perché ristretto allo spazio della casa e del virtuale) con quello del pensiero. Dobbiamo imparare a stare con il vuoto, non unicamente nel tentativo di schivarlo. Senza demonizzare la distrazione, di per sè innocua e patologica solo là dove colonia tutto lo spazio mentale, bisogna rispolverare la nostra capacità assopita di concentrazione.

Come? Attraverso la lettura, la scrittura, l’arte in generale, la meditazione, la preghiera. Ciascuno di noi, nel suo piccolo, può riuscirci. Perché a questo livello non si tratta di essere degli intellettuali ma di riscoprire semplicemente la nostra natura di esseri pensanti. Il pensiero non è fatto solo di ragionamenti ma anche di sensazioni, di stati d’animo, di emozioni non necessariamente tumultuose e strillate.

Ecco, dobbiamo nuovamente sintonizzarci sulla frequenza della nostra voce interiore, cercarla, darle ascolto. Inizialmente sentiremo poco o nulla ma via via essa si farà riconoscere e dal contatto  con lei ne trarremo forza e conforto.  Questa voce è infatti in stretto rapporto con la ferita che ci portiamo tutti dentro, se è vero che non esiste vita immune da fragilità e caducità.  

Non dobbiamo avere paura di cercarla, facciamo silenzio, sarà un antidoto alla paura, sarà un abbandono fiducioso a ciò che deve essere. Sarà comunque pienezza, qui ed ora, ricchezza autentica nel vuoto e nella solitudine del nostro isolamento. 

Disagio contemporaneo