Esprimere o reprimere la rabbia?
La rabbia è un’emozione che nasce dentro di noi ogni volta che abbiamo la sensazione di venire sopraffatti da qualcuno o da qualcosa. È una sorta di segnale emotivo che ci indica che quella persona o quella situazione ci stanno schiacciando e bloccando nella nostra possibilità di espressione, azione e auto realizzazione.
La complessità della rabbia
Di per sé non si tratta quindi di un vissuto negativo, sebbene spiacevole, perché svolge una funzione di bussola rispetto a chi e a che cosa accompagnarci per vivere una vita in cui ci sentiamo il più possibile tranquilli e realizzati.
Il problema nasce quindi in rapporto ad una sua eccessiva pervasività ed espressione (che esita nella violenza verbale o fisica) o al contrario ad una sua totale inibizione (che sfocia in passività).
La complessità della rabbia risiede proprio in questa sua ambiguità: se da una parte essa non va repressa ma riconosciuta e valorizzata per il messaggio di cui si fa portatrice e per una certa energia che imprime alla parola e all’azione, dall’altra lasciarvisi guidare, consegnare a lei la guida dei nostri atteggiamenti, può rivelarsi profondamente distruttivo per sé stessi e per gli altri.
La rabbia infatti può impadronirsi di noi come un fuoco, una passione che ci acceca e ci impedisce di ragionare e di esprimerci lucidamente, portandoci a sostituire le argomentazioni con le offese o ad essere troppo taglienti in situazioni che richiederebbero diplomazia (il che non necessariamente è sempre un male se permette di separarsi da condizioni tossiche e di innescare un sostanziale rinnovamento nell’esistenza).
Le cause profonde
Che cosa ci predispone a venir dominati dal furore della collera? Protagonismo? Scarsa autostima? Bisogno d’essere amati? Eccesso di volizione? Temperamento passionale?
Già Ippocrate riconduceva il fenomeno al fattore costituzionale; una base temperamentale in effetti si associa all’espressione incontrollata della rabbia, tuttavia ad essa si sovrappongono anche altri fattori. Tutti hanno in qualche maniera a che vedere con una ferita dell’infanzia, connessa alla percezione di un’ingiustizia subita e alla necessità di salvarsi, di salvarsi con le proprie forze perché la solitudine è pressoché totale.
Molti caratteri forti celano, dietro a modalità sicure e adattive, un punto di fragilità suturato alla bell’è meglio, che in situazioni critiche (in cui si trovano a tu per tu con il muro, la stupidità e l’indifferenza dell’altro) le esplosioni di rabbia smascherano impietosamente. L’invettiva dell’iroso è così tumultuosa perché attinge a fonti antichissime, che si risvegliano e per un attimo sbaragliano gli argini costruiti nel tempo per limitare il ribollire delle acque.
La rabbia ha salvato un tempo dalla morte psichica, dall’annichilimento soggettivo; essa può così inconsciamente venir associata all’unica possibilità di “salvazione” in casi in cui si sente minacciata la propria persona, il proprio lavoro, le proprie idee, in ultima analisi la propria affermazione vitale.
Il rabbioso appare così come un guerriero, armato fino ai denti, alle prese soltanto con un branco di pecore. Il suo atteggiamento da battaglia risulta cioè spropositato rispetto alla situazione reale in cui si trova, concretamente non così minacciosa e soprattutto non richiedente così tanta energia e passione.
Come uscirne
Uscire dal cortocircuito della rabbia non è possibile durante la crisi; in generale è preferibile che il rabbioso si sfoghi quotidianamente un po’, sfiati il serbatoio un tanto al giorno con piccole arrabbiature anziché si trattenga e si nasconda dietro ad atteggiamenti da profeta per poi impazzire all’improvviso e mettersi nei guai in maniera seria.
Il controllo è infatti inefficace verso la rabbia, finisce soltanto per accumularla in un cantuccio fino ad uno scoppio drammatico e devastante.
Alcuni esperti di terapie cognitive e comportamentali suggeriscono la strategia di “osservare” il montare della rabbia come se il fenomeno non riguardasse se stessi ma un altro, promuovendo così una disidentificazione da essa. Il concetto in effetti è interessante, è come arrivarci il vero problema.
Perché se la strategia la si applica con impegno da compito a casa essa di fatto ricade nel territorio del contenimento e della repressione e dunque nel lungo è destinata allo scacco.
La linea più propria delle terapie psico dinamiche va nella direzione di una tolleranza verso la rabbia (non certo verso una sua incentivazione), da acquisire di pari passo alla comprensione delle sue origini e motivazioni.
Il collerico, dopo le sue sparate ed esternazioni, sempre si sente in colpa e dentro se stesso si vergogna profondamente dell’accaduto, anche quando non manifesta apertamente il suo rammarico con scuse o chiarimenti.
Quindi anche agire sul senso di colpa non ha senso, anzi, si finisce per rinforzare il meccanismo patologico.
Bisogna muoversi sulla sottile linea di confine che separa la comprensione del problema dal tema della condanna o del perdono, dato che la questione in gioco non è morale. L’io dopo una crisi di rabbia ne esce acciaccato ma il punto non è né restaurare la sua tenuta né insistere sulla mortificazione.
Stare, mettersi in contatto col vero dolore, questo è balsamico. Il riconoscimento, la presa di coscienza che un disarmo è possibile invece miracolosamente cura.
Accedere a dimensioni così profonde non è semplice, le stesse persone non sono consapevoli di quanto dolore si portano dentro, tendono a minimizzare, a dire che si tratta del passato, a non volerci andare per non stare male ecc…
Il curante, là dove capisce che un attraversamento di certe zone d’ombra è fattibile e tollerabile senza scompensi gravi (pur con tutti gli scossoni che porta inevitabilmente con sé) sa che quel momento potrà arrivare e lo aspetterà, dopo magari molto tempo passato ad ascoltare questioni più di superficie.
Allora, forse, la cura potrà interrompere qualcosa, da sé, senza forzature, come esito di un percorso e non di una prescrizione.