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Difficoltà di comunicazione o incomunicabilità?

Una certa tradizione della filosofia nonché della psicoanalisi e della letteratura ritiene che l’incomunicabilità sia strutturale negli esseri umani. Questo perché siamo tutti diversi, vediamo e abitiamo il mondo a partire da una distorsione personale data dal nostro Io e dalla nostra soggettività.

La cultura poi se da una parte uniforma, appiattisce e rende apparentemente tutti simili, se non è banalmente cultura di massa viene recepita e filtrata dalla particolarità individuale, incentivando anziché riducendo la differenza.

Incomunicabilità ed egocentrismo

Come possiamo allora intenderci se parliamo tutti linguaggi diversi? 

Innanzitutto bisognerebbe distinguere l’incomunicabilità tout court dalla difficoltà di creare un ponte verso l’altro. Più siamo un tutt’uno con il nostro Io più rileviamo un’impossibilità pressoché totale di comprendere il nostro prossimo. 

L’egocentrismo infatti ci porta a identificarci integralmente con la nostra visione del mondo, impedendoci di decentrarci rispetto alla nostra sensibilità, gusti, universo di valori ecc…Magari il decentramento riesce ma esso non è spontaneo, è dato da uno sforzo razionale di “tollerare” l’altro,  in virtù di una convivenza il più possibile pacifica. Il controllo razionale dell’aggressività, insita sempre in un Io forte e ben strutturato, non garantisce rispetto ad un suo scoppio improvviso e incontrollato, generalmente quando l’altro manifesta una sua condotta spontanea, irritante perché irriducibile alle aspettative dell’Io.  

L’Io ambisce a rapporti speculari, in cui ci si somiglia integralmente, ci si atteggia e ci si comporta sulla base di una similarità ideale e senza sbavature. La stessa empatia, che fa tanto sensibilità e comprensione dell’altro, in realtà cela un fondo di finzione e di tentativo di controllo. Mettendomi a specchio con il mio interlocutore gli dò e mi dò  l’illusione di capirlo, di essere come lui, finendo però dentro un grande equivoco e in un gioco distruttivo di mistificazioni e aspettative fuorvianti. 

L’Io è educato, garbato, gentile ma se non riesce con le maniere soft a piegare la diversità dell’altro ecco che può diventare improvvisamente pungente (nei migliori dei casi) o francamente distruttivo. 

Si vede bene come la comunicazione empatica  tanto sbandierata dai corsi di comunicazione non sia infondo altro che una forma di manipolazione, congeniale al sistema in cui viviamo. Non a caso i più empatici sono proprio i venditori, abili a intercettare i bisogni altrui  e a porre se stessi e le proprie merci come le soluzioni all’insoddisfazione da confort che tanto caratterizza i tempi moderni. L’empatico è allora sì un comunicatore, ma menzognero. Irretisce, seduce ma chi è davvero non si sa, potrebbe tranquillamente celare finalità opportunistiche e  calcolatrici. 

Se anche la calda gentilezza ci porta fuori strada sulla via della comprensione dell’altro siamo davvero condannati all’incomunicabilità più totale? Ci restano solo le illusioni e la brillantezza di superficie che, una volta chiuso il sipario,  celano un groviglio di menzogne e disarmonie insanabili?

La soggettività come ponte verso l’altro 

Fortunatamente la nostra mente non è unicamente costituita e dominata dall’Io, inteso come il sistema centrale che gestisce l’adattamento all’ambiente, amministra ciò che conviene e non conviene, giudica e delibera rigidamente (anche in senso morale) rispetto a ciò che è bene e ciò che è male,  tiene a bada gli impulsi e difende dalle incursioni dell’inconscio.

La soggettività è il luogo che non corrisponde integralmente con l’Io, si sovrappone ad esso e collabora con lui in certi punti ma lo eccede sempre, perché ingloba anche aspetti della parte inconscia della psiche, parti fantasiose, originali  ma anche poco raccomandabili e di cui non andare troppo fieri su un piano di impeccabilità. Essa è in evoluzione, si affina nel corso della vita, rendendo una persona ricca, sfaccettata, tollerante  e soprattuto vera. 

Lo stesso obiettivo di una cura orientata in senso umanistico punta al recupero del tratto soggettivo, spesso irregolare ma più proprio della persona, nella convinzione che approcciare il più possibile ciò che si è nel profondo possa avvicinare maggiormente ad uno stato di benessere psichico duraturo nel tempo rispetto ad una condizione di livellamento, superiorità o compiacenza verso le attese dell’altro.

Tale benessere non è senza costi, esso suppone l’accettazione della perdita di una quota di consenso e l’integrazione di tutto, anche delle parti più scabrose e meno brillanti della propria persona. Essere autentici vuol dire questo, attraversare anche il proprio peggio, prenderne coscienza e non vergognarsene, provando simpatia e non condanna verso l’inciampo proprio e altrui. Significa leggerezza ma non superficialità, proprio perché l’orizzonte morale dell’Io non è abolito integralmente nel menefreghismo o nel compiacimento di una coscienza svampita. 

Il guadagno sta dunque nella consapevolezza della propria ed altrui complessità, che dunque ridimensiona l’egocentrismo tipico della struttura dell’Io e permette di superare parzialmente le difficoltà comunicative con i propri simili. Calarsi nei panni dell’altro non è finalizzato a stabilire un clima artefatto di omogeneità ma significa sintonizzarsi con la differenza, accogliendola senza paura, così com’è.

 

Esistono poi le affinità d’animo, le affinità elettive, ma anche qui non c’è da fare un idealismo delle anime gemelle. La diversità insiste sempre, ma aver fatto i conti con la propria permette di custodire come un gioiello l’intesa profonda con un altro essere umano, rinunciando all’obiettivo impossibile di possedere, fare ed essere uno. 

Disagio contemporaneo