L’importanza della separazione
Molti disagi di tipo ansioso e depressivo sono l’esito di un processo di separazione psichica dalle figure parentali non portato a pieno compimento.
La questione per molti è contro intuitiva (se sono così unito mentalmente ed emotivamente ai genitori non è un bene?) e generatrice di sensi di colpa (come posso dare la colpa alla mia famiglia che si è tanto presa cura di me?), al punto tale da non poter essere affrontata adeguatamente se non dopo molto tempo.
Adolescenza e primo passo separativo
Tali resistenze all’analisi vanno tenute da conto, proprio perché rivelatrici di un blocco profondo, a volte così tenace e pervasivo da non poter essere smosso.
Il mantenimento di una posizione di fondo di natura infantile verso i propri genitori infatti fa pensare che ogni cosa che viene da loro infondo sia buona e giusta, anche quando frustrante, assurda o opinabile.
Molto spesso nelle storie di chi resta condizionato dalle parole, dagli atteggiamenti e dalla volontà dei genitori manca quasi completamente la crisi adolescenziale, non tanto intesa come semplice accesso alla sessualità e al divertimento, ma come momento di profonda ristrutturazione della visione della famiglia e delle sue dinamiche interne.
L’adolescente che esce davvero dall’infanzia mette in discussione la parola del padre o della madre, la soppesa, la analizza, ne viene colpito ma comincia anche ad avere la possibilità di confutarne i contenuti. La ribellione può essere più o meno violenta dal punto di vista verbale o comportamentale ma essa, quando c’è, getta le basi per il futuro sviluppo di una personalità autonoma, benché talvolta ferita.
Questo processo non coincide con il lamento per le restrizioni o gli obblighi imposti da mamma e papà, va molto oltre. I genitori minimamente illuminati rispettano la necessità del figlio adolescente di disprezzarli, non ne sono dispiaciuti perché a loro volta non hanno bisogno, per avere un senso di identità, di un bambino piccolo ubbidiente e amorevole. Accolgono la crescita con benevolenza e il pizzico di rimpianto per il “bambino che fu” viene integrato molto velocemente.
Più difficile invece è separarsi in quei contesti familiari che ostacolano ostinatamente i tentativi dei figli di crescere. La lotta può farsi durissima oppure ad un certo punto può verificarsi una stanchezza con relativa regressione, un tornare indietro su posizioni infantili per quieto vivere, per rinuncia.
Ecco che mamma e papà sono assecondati in tutto, quello che dicono e pensano continua a essere “IL” punto di riferimento ultimo, mentre un senso di colpa si affaccia ogni volta che compare un dubbio o una contrarietà rispetto alla parola o al comportamento genitoriale.
Infondo lasciarsi guidare, affidarsi alle idee e al volere degli altri è molto comodo; la trappola e il ricatto di un’esistenza perennemente assicurata impedisce o ritarda di molto il momento in cui la propria vita viene presa in mano integralmente, senza più la ricerca infantile del sostegno, del conforto e soprattuto dell’approvazione.
La separazione nella cura
Tutto ciò fa capire come in un percorso terapeutico lo snodo della separazione venga inevitabilmente incontrato, pena la stagnazione o l’interruzione ai primi benefici di un lavoro superficialmente concentrato sui sintomi.
Certi sintomi possono essere rattoppati e la situazione d’emergenza può essere anche superata senza l’affondo nei territori oscuri dei rapporti familiari. Prima o poi però la persona nella vita si ritroverà nuovamente faccia a faccia con i propri fantasmi irrisolti.
Se invece si riesce a tollerare il senso di colpa nell’addentrarsi in certe dinamiche la chance di uscirne più consapevoli e centrati è molto alta.
A volte, anziché la colpa, osserviamo un rancore e un odio molto forti. La persona in questi casi è estremamente cosciente di essere stata influenzata da identificazioni fuorvianti e tossiche ma non ce la fa a scollarsele di dosso e soprattutto a perdonare, a lasciar andare, alla luce dell’intima soddisfazione di essere riusciti finalmente ad agganciare qualcosa di autentico e solido di se stessi.
Il fine di una terapia non è assolutamente quello di individuare il colpevole, addossare su di lui tutte le responsabilità e, una volta alleggerito il sacco, far andare per il mondo liberi ma arrabbiati e pieni di sentimenti negativi.
L’obiettivo è quello di evocare i problemi nascosti sotto il tappeto non per il gusto della negatività fine a se stessa ma per arrivare, dopo una fase di intensificazione del malessere, ad un suo depotenziamento.
Alla mitigazione ci si arriva quando durante il processo di apertura del vaso di Pandora non ci si limita a dare sfogo alla rabbia ma si trova la soddisfazione rinfrancante di incontrare finalmente se stessi, senza le identificazioni distorcenti dell’altro.
Se nella rivisitazione dolorosa di certe dinamiche si fa spazio per questa specie di “rinascita”, di accordo ritrovato con le proprie inclinazioni e aspirazioni, allora vuol dire che si è sulla buona strada per recuperare forza positiva ed energia.
Non bisogna avere paura di mettere sotto la lente di ingrandimento le piccole grandi storture della famiglia di origine; uccidere un po’ l’altro in termini simbolici non coincide necessariamente con il non poterlo amare più.
Amare in certi contesti si accompagna ad una quota di ambivalenza che, se non riconosciuta, agisce sotterraneamente su altri piani. Poter nominare l’odio, la rabbia, il rancore ha il suo senso, fosse anche solo per mettere un po’ di ordine, un po’ le cose al loro posto.
Esistono pesi che nessuna analisi può cancellare; tuttavia l’analisi può schiarire là dove tutto pareva oscuro e confuso, può riconnettere alla spontaneità perduta, ridando la possibilità di rimettersi in gioco alla luce di una solida coscienza di sé.