Perché la cura non viene dall’altro
La molla che porta quasi sempre a chiedere aiuto ad uno specialista è la presenza di un sintomo o di una costellazione di malesseri più o meno invalidanti, a volte percepiti come disturbanti corpi estranei oppure come parti della propria (complessa) personalità.
Tuttavia esiste un ulteriore gradino da salire per accedere ad un vero percorso di guarigione. Se la domanda iniziale è determinante, ciò che risulta essenziale è un cambiamento di mentalità rispetto alla stessa terapia.
Resistenze nell’entrata nella cura
Il più delle volte infatti prevale l’aspettativa che sia lo psicoterapeuta a risolvere direttamente il problema, al pari di un medico che prescrive il farmaco o il trattamento per la cura del corpo. Per l’aspirante paziente modificare questo tipo di atteggiamento mentale può essere molto complicato, se non addirittura impossibile.
Il grado di malleabilità rispetto alla delega totale della cura all’altro dipende da quanto la persona è veramente disposta a cambiare. Mettere tutto nelle mani del terapeuta, vuotare il sacco e poi aspettare il consiglio, la prescrizione o la tecnica risolutiva tradisce nella quasi totalità di casi la volontà di non venir toccati nel profondo, dunque di non voler guardare se stessi e gli altri con occhi che non siano quelli dell’abitudine, del già saputo e dell’evidenza.
Molte persone che faticano in tal senso soffrono di problematiche narcisistiche, ovvero sono sostanzialmente infatuate dell’immagine che vogliono “presentare” di sé stessi. Il così detto “falso sé” ha occupato talmente tanto spazio psichico da non poter essere messo da parte nemmeno in terapia, pena un senso di voragine, di vergogna e di crollo.
A volte ciò si traduce in un inutile atteggiamento di sfida o di seduzione verso il curante, il quale bisogna che accolga il tutto in maniera bonaria e non speculare se vuole davvero dare la chance al suo paziente di fare un passetto in avanti.
Questa fase di stagnazione e di rifiuto ad ingaggiarsi davvero in un lavoro di ricerca che vada oltre il già saputo può essere bruscamente interrotta da un abbandono precoce della cura, trascinarsi a lungo (anche anni, senza che nessun cambiamento di posizione si verifichi), oppure via via allentarsi in nome di una curiosità e passione crescenti rispetto alla rilettura della propria vita (che porta a sopportare la fatica di un percorso fatto di sedute illuminanti e di sedute vuote, in cui non accade niente di straordinario).
I miglioramenti iniziano ad essere percepibili una volta che il gradino è stato salito e da loro proviene la forza di andare avanti, in un processo simile a quello dell’imparare ad andare in bicicletta. Vedere che si riesce a stare un pochino in equilibrio stimola il provarci e riprovarci, tollerando le cadute non troppo rovinose.
Cura e ricerca del senso
I sintomi psichici dunque non si comportano come quelli fisici. Se la malattia del corpo può essere affrontata con un modesto coinvolgimento emotivo (ci vuole sicuramente la buona volontà di seguire le indicazioni del medico) la sofferenza emotiva richiede molte più risorse attive e non necessariamente va vista come malattia.
Inoltre mente e organo cervello non coincidono, coscienza e funzionamento neuronale non sono perfettamente sovrapponibili. La coscienza (inclusi i suoi livelli di incoscienza), l’anima, il sé profondo, la mente, tutto il teatro psichico non sono riconducibili ad una sicura e comprovata radice somatica, un aggancio concreto che permette di spiegare integralmente i fenomeni psichici.
Ragion per cui ogni farmaco o ogni tecnica comportamentale sono destinati al fallimento se applicati serialmente come metodica risolutiva. Nessuno può trattare la psiche come un corpo, come un mero fenomeno fisico.
Al rovescio se il senso di una malattia puramente e squisitamente fisica resta fuori dalla nostra portata (volontà divina, destino, fato, casualità ecc…), quasi sempre un malessere dell’anima mostra una qualche ragion d’essere, che però solo chi patisce può abbordare e descrivere, benché guidato e aiutato da fuori.
Un sintomo della sfera psicologica è alla fin fine un messaggero di qualcosa che non vogliamo vedere o approfondire, di cui abbiamo paura o che pensiamo di aver già capito.
Ciò fa di esso un enigma e una possibilità, un’opportunità di andare oltre l’apparenza per ritrovare un rapporto più equilibrato con la propria essenza, un’accoglienza nuova, magari mai sperimentata nella vita in nome della performance e dell’adeguamento alle attese degli altri e del contesto familiare e sociale.
Come potrebbe tutto questo dipendere passivamente dal solo intervento di uno specialista? Un terapeuta minimamente cosciente di tali dinamiche può sapere come non sbarrare la via alla ricerca dei perché, come eventualmente favorirla e arricchirla con interpretazioni, ma poi la decisione rispetto all’avventurarsi o meno nel viaggio interiore la prende sempre il paziente.
Capita anche che il processo non si inneschi perché magari non è il momento giusto, false partenze possono venir riprese dopo anni. Per iniziare a togliersi delle bende ci può volere in primis l’esperienza di vita (l’incontro con il fallimento, la caduta di certe illusioni o al contrario il raggiungimento di mete tanto ambite che poi a conti fatti risultano deludenti ecc…) a patto poi che si sia disposti a mantenere aperta una visione alternativa e a non riprecipitarsi nuovamente verso letture note e ripetitive.
I preconcetti sulla propria persona costituiscono ostacoli enormi e non immediatamente rimuovibili; un compito del terapeuta è quello di intercettarli e di non colludere con essi, ovvero di mantenere una visione che vada al di là del dato immediato, non facendosi influenzare dal modo con cui l’altro si presenta o si atteggia, da impressioni a pelle di simpatia o antipatia, di stima o disistima, di compiacenza o opposizione ecc...
Esistono molti strati che separano le persone dal nucleo profondo di sé stesse. Un percorso di psicoterapia può essere visto anche come un processo di progressivo avvicinamento alla verità, una caduta di involucri, identificazioni esteriori altamente alienanti. La sua fine coincide col non avere più bisogno del sostegno della presenza alleata del curante.
Ingresso autentico nella terapia e sua conclusione accadono allora all’insegna della più piena responsabilità, passaggio inaugurale di ogni miglioramento dei sintomi e di ogni leggerezza ritrovata (in opposizione alla passività e alla delega infinita all’altro).