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Il potere curativo della psicoanalisi

Una cura psicoterapeutica ancora troppo spesso viene vista dagli utenti e dagli stessi operatori che la esercitano come uno strumento in grado di “correggere” o “eliminare” le così dette “storture” caratteriali e comportamentali.

Il senso dietro al malessere 

Le persone che chiedono aiuto sull’onda dell’urgenza (e che sono poco informate in materia) nutrono l’aspettativa di incontrare qualcuno in grado di “cambiarli”, magari grazie a qualche strana tecnica. Dal canto loro molti terapeuti si identificano in coloro che la sanno lunga, nutrendo fantasie onnipotenti (oppure al rovescio disimpegnandosi da ogni coinvolgimento).

In verità un processo psicoterapeutico che non si fonda su illusioni e aspettative irrealistiche propone innanzitutto una lettura diversa del malessere, evitando di ridurlo a semplice deviazione dalla “norma” ed inquadrandolo come una caratteristica della persona che ha delle precise origini e funzioni.

L’accoglienza del “male” come una modalità temporanea o pervasiva di stare al mondo cambia completamente lo scenario: è evidente come l’aggressione diretta e la soppressione  coincidano con la morte psichica del soggetto stesso.

Comprendere (e non silenziare) le ragioni del disagio è quindi il primo passo verso una vera cura psichica, che a questo punto si capisce quanto distante sia dal modello medico tradizionale (eradicazione della malattia, soppressione dei sintomi).

Stare male in terapia, sperimentare dei peggioramenti anche per diverso tempo, non è da leggersi negativamente se l’alleanza col terapeuta è solida.

Il rapporto col curante

Un altro punto chiave è infatti il rapporto col curante. Egli non compie azioni di “magia” ma non è nemmeno assopito o affaccendato negli affari propri.

Terapeuta e paziente lavorano insieme.  Il primo facilita (con domande, commenti e soprattutto con vivo ascolto) l’espressione della sofferenza tramite le parole. Il secondo è quello che compie lo sforzo di pensare e di dire, nonché di buttare fuori le emozioni per mezzo di canali non verbali.

In ogni caso abbiamo due persone che con fiducia reciproca si danno da fare, entrambe intente nel lavoro di espressione, decodifica e condivisione del sofferto e talora caotico mondo interiore di una di esse.

Questo processo ha bisogno di un po’ di tempo per dispiegarsi, data non solo la complessità dei pensieri e delle emozioni in gioco, ma anche l’intersezione del lavoro psicoterapeutico con la vita (che continua a scorrere e ad interferire con la realtà psichica). 

Gli eventi della vita ci si mettono  sempre ad aggravare o a facilitare certe situazioni, essi sono dei cimenti o dei banchi di prova che impattano sul processo terapeutico, fornendo spunti, virate ed esiti imprevedibili.

Cosa cura allora? 

Si capisce allora come tutti questi fatti (l’accoglienza dei sintomi come reazioni sensate ad un tal situazione di vita, la fiducia nel curante, il lavoro espressivo e interpretativo) concorrano a rendere tollerabile una conoscenza  di sè prima impedita dalla paura.

Più  il lavoro procede nei territori dell’inconscio (quelle zone sommerse, impensabili a cui solo l’apparente assurdità dei sintomi sembra dare voce) più il compito di “messaggero” del malessere si riduce.

Ciò che era inconscio diviene sempre più cristallino, non solo dal punto di vista razionale, ma soprattutto a livello della vita emotiva profonda.

Allora si potrebbe dire che riappropriarsi radicalmente di se stessi e della propria, unica, irripetibile diversità è ciò che restituisce  un qualche possibile sentimento di pace.

Certe ferite di fondo l’analisi non può cancellarle ma può privarle di una quota di potenziale patogeno e distruttivo.

Un nuovo, diverso equilibrio appare infine ancora possibile, nonostante tutto.

Aiuto psicoterapeutico