La paura di invecchiare
Al mondo d’oggi la vecchiaia è vista come una condizione deprecabile, talmente orrenda da dover essere “prevenuta” e “combattuta” anzitempo.
Anziché venir inquadrata come manifestazione della condizione di fondo dell’essere umano (fragile e precaria) con cui ciascuno è chiamato a fare i conti, essa è trattata come una sfida da affrontare, nell’illusione di una vittoria finale.
Al posto della promozione di una “cultura“ dell’accettazione (che aiuti le persone ad accostarsi senza aspettative irrealistiche alle possibilità nuove offerte dalla ricerca e dalla medicina) osserviamo il dilagare di un pericoloso “culto“ del benessere, basato sulla fede nei poteri illimitati della scienza e della volontà.
Invecchiare è diventato così una colpa e una vergogna: se gli anni non si riesce più a nasconderli, se la malattia colpisce nonostante la prevenzione e la cura significa che non si è fatto abbastanza, non si è stati sufficientemente determinati per “vincere” la partita.
Le ricadute psichiche
Tutto il bombardamento mediatico sull’importanza dell’alimentazione, dello sport e della medicina preventiva non lascia indenne la psiche individuale e collettiva.
Basta accendere la tv o aprire un giornale per imbattersi in trasmissioni e articoli che sbandierano entusiasticamente gli ultimi ritrovati della chirurgia (estetica e non).
Anche le onnipresenti immagini lisce e patinate di donne e uomini anagraficamente vecchi ma in forma smagliante contribuiscono al sovraccarico di informazioni tossiche per la mente.
Le persone, di ogni età, introiettano queste informazioni e ne vengono influenzate nei modi più disparati, a seconda del livello culturale, degli strumenti a disposizione ma soprattutto in base alla struttura della loro personalità.
La spinta conformistica, che agisce in tutti, fa più o meno danni in base alla forza del temperamento e a certe caratteristiche caratteriali.
Chi riesce ad accettare la propria natura “mortale” si dimostra in grado di resistere alla pressione di idee e modalità insensate.
L’equilibrio nasce da un quotidiano e non negato rapporto con la fragilità, che normalizza l’imperfezione e la integra nel vissuto.
La cura del corpo avviene di pari passo alla cura della serenità mentale, senza eccessi salutistici, senza ricorso a pratiche mediche non strettamente necessarie e al netto di sane evasioni di piacere.
Gli anni che passano inducono riflessioni profonde, portano con sè sentimenti nostalgici per il tempo che fu, però non esitano mai in pensieri disperati. A bilanciare il dispiacere ci sono nuove consapevolezze e nuovi modi di vedere e di sentire indotti proprio dal tempo vissuto. Infine l’incontro con la malattia e le possibilità terapeutiche non getta nella disperazione ma nemmeno esclude difensivamente la possibilità dell’insuccesso.
Le vittime del sistema
Le vere vittime del sistema salutista sono dunque coloro che o vi si buttano a capofitto per restare eternamente “giovani” oppure che si lasciano completamente andare alla trascuratezza e al sabotaggio della propria salute.
Non è raro vedere dei passaggi repentini dall’una all’altra posizione, da un’iper controllo della salute ad un totale disinteresse dalle tinte autodistruttive.
Tale dinamica coinvolge giovani e meno giovani, persino donne e uomini ormai francamente anziani. La comune caratteristica è una problematica a livello narcisistico: l’immagine per questi soggetti è tutto.
Il giovane adulto, l’uomo di mezza età, quello che nella vecchiaia c’è già da un pezzo ma fa finta di avere vent’anni vivono nell’incubo di “invecchiare”. Ogni percezione di una caduta della propria immagine coincide con episodi di angoscia, ritiro sociale, umore depresso e crisi devastanti a livello personale e lavorativo.
Per molti il ricorso a trattamenti estetici si profila come una vera e propria terapia dell’anima, ahimè strategia che arreca sollievo temporaneo, crea dipendenza e spinge sempre più a fondo nella spirale dei meccanismi malati.
La cura psicoterapeutica resta una valida alternativa, soprattutto per scandagliare quelle zone della mente che nessun discorso igienista può raggiungere.
L’enigma della morte, l’angoscia rispetto al senso della vita, la percezione della propria desiderabilità come esseri sessuati sono alcuni temi che possono saltare fuori, rispetto ai quali non ci sono risposte universali ma solo posizionamenti personali.
La terapia non può aiutare a rammendare l’immagine lesa dall’attacco del tempo o a trovare un riparo dalla legge di natura.
Essa può, mediante un lavoro di rievocazione di momenti significativi e della messa a fuoco di nessi importanti, spostare l’attenzione dall’esterno all’interno.
Lasciare andare il passato e puntare infine alla scoperta di nuovi sè (che non siano tristi maschere mummificate dei bei tempi andati) è un successo possibile, sempre che sia possibile relativizzare il potere dell’immagine in favore di un discorso introspettivo.