Il tempo nella psicoterapia
Il tempo è un fattore decisivo per la riparazione di una ferita o per la guarigione da una malattia.
Se la medicina potenzia o addirittura innesca i meccanismi che promuovono il ristabilimento dell’equilibrio perso, il tempo è la dimensione necessaria affinché tali processi possano sprigionare i loro effetti.
Convalescenza e riabilitazione della psiche
Per la psiche vale lo stesso principio, la fretta non giova, sia all’interno della singola seduta, sia nell’intervallo fra un incontro e l’altro.
Decidere di curarsi significa prendersi del tempo ed avere costanza, come si fa quando una condizione fisica particolare impone un periodo di convalescenza e di riabilitazione.
Per tornare a stare sufficientemente bene è necessario sopportare un periodo in cui non si sta bene affatto. Non è raro che la sensazione di malessere si intensifichi proprio durante la cura, così come accade dopo un’operazione chirurgica o una manipolazione fisica.
Intervenire su ciò che fa male non dà quasi mai immediato sollievo. La sensazione rinfrancante che si prova dopo essere stati da un dottore è data dal sapere finalmente di cosa si tratta. Anche al termine di un intervento diretto il sollievo non sta nell’immediata sensazione di benessere, ma nella coscienza di aver fatto ciò che è giusto nell’ottica di un possibile benessere futuro (anche quando esso si prospetta parziale e non esente da ricadute).
Questi concetti se si pensa alla medicina non destano nessuna sorpresa. Ma per il malessere dell’anima si è meno propensi ad avere pazienza, e questo perché manca ancora una cultura diffusa a riguardo.
Il “prima” e il “dopo” l’intervento psicoterapeutico
Anche se negli ultimi anni le problematiche di ordine emotivo non sono più un tabù, le persone ancora oggi hanno difficoltà a orientarsi e a chiedere aiuto a colpo sicuro; in più non hanno idea di cosa aspettarsi da un percorso psicoterapeutico.
Le terapie brevi e comportamentali, proponendosi come soluzioni rapide e indolori, sono in genere la prima scelta. La psicoanalisi d’altro canto non si è guadagnata una grande fama nell’immaginario collettivo, vista come una pratica un po’ sterile ed eccessivamente intellettualistica.
Gli approcci psicoterapeutici in effetti rispetto al fattore tempo tendono a polarizzarsi o su una dimensione di superficialità e di fretta (i consigli e le tecniche per tornare a funzionare rapidamente) oppure al rovescio su un piano di infinitezza, di scollamento dalla realtà e dunque di inutilità rispetto alle esigenze pratiche delle persone.
Esiste tuttavia un modo di fare psicoterapia che tiene conto della pressione del malessere, che va curato e non ignorato,
senza appiattirsi sul piano del rimedio fittizio e senza al contempo scivolare nell’ineffabile.
Le persone vengono invitate a parlare di cosa non va e a fornire dettagli sull’insorgenza del sintomo e il suo contesto più generale non solo per dare la possibilità al clinico di capire di che cosa si tratta, ma anche per permettere a chi racconta di storicizzare e di mettere ordine nel caos che lo pervade.
Questa inaugurale messa in forma del disagio attraverso una ricostruzione “guidata“ e lo stabilirsi di nessi e connessioni ha il valore di una diagnosi, interessata non ad etichettare ma a produrre un senso che prima non esisteva.
Anche in medicina succede così: le persone si sentono meglio quando viene dato un nome a qualcosa che accade loro e che ha una connotazione minacciosa e incomprensibile.
Questo incremento di consapevolezza è frutto dell’essersi presi del tempo per capire. Con calma, nello spazio protetto della seduta, si permette al senso di venir fuori, piano piano. Si constata così che c’è un “prima” e un “dopo”; in mezzo qualcosa viene trasformato.
È chiaro che un incontro soltanto non basta ad illuminare tutto, ma già questa prima ricognizione dall’alto, se ben fatta, ha un valore enorme ai fini di un conforto e della motivazione a volerne sapere di più raffinando l’indagine nei colloqui successivi.
Stare peggio oggi per stare meglio domani
Andare a far luce in angoli bui e dimenticati riattualizza tuttavia certe sofferenze sopite. Accanto alla percezione di liberazione compaiono la pena, lo sconforto, la rabbia. Potenti emozioni vengono risvegliate e rivissute.
Tale accrescimento dei patimenti è necessario per poterli affrontare a piccole dosi e non più in solitudine. Il terapeuta prende su di sè un po’ di quel dolore e lo restituisce in una forma più sostenibile e vivibile.
La sofferenza condivisa così facendo si umanizza e perde alcuni caratteri tossici, permettendo a chi ne è vittima di non farsene schiacciare. È l’atteggiamento a cambiare: ora esso si fa propositivo, meno sfuggente o passivo.
In genere di fronte a traumi grandi o piccoli che siano la psiche reagisce con la fuga nel contrario o la passività. Modalità maniacali o depressive nell’attualità sottendono spesso esperienze difficili del passato remoto non del tutto elaborate. Basta un intoppo che metta in crisi le antiche difese per far crollare una struttura apparentemente solida.
Tornare all’origine, lavorare le questioni cruciali del passato, vederle da più prospettive con partecipazione emotiva si capisce allora come sia intersecato strettamente all’attualità e alle sue immancabili necessità.
Il tempo della seduta così come quello dell’intero ciclo di cura si rivela così il contenitore essenziale dell’intero processo di cura. Senza il giusto tempo non esisterebbe elaborazione di nulla e dunque nemmeno la possibilità di tornare a un equilibrio più vero e più solido.
Se per tutte le pratiche che si occupano della salute l’ideale è la totale eliminazione della malattia, si può essere però molto felici anche di un miglioramento circoscritto a fronte di percorsi lunghi.
Certe ferite emotive e i loro effetti hanno la concretezza di una malattia fisica e non si possono cancellare del tutto.
Tuttavia se si hanno coraggio, costanza e pazienza i risultati arrivano, e ci si ritrova una forza interiore che non è più il risultato di una difesa ma dell’essere finalmente disarmati di fronte a quello che è stato e a quello che è.