La cura della dipendenza affettiva
La dipendenza affettiva “patologica”, molto difficile da trattare nei confini della psicoterapia, non va confusa con quella “comune”, che si instaura all’interno di tutti i rapporti d’amore continuativi.
La dipendenza del legame affettivo
Ogni legame stabile comporta infatti una quota di dipendenza. Nessun essere umano può dirsi perfettamente bastante a se stesso; nel momento in cui si crea un legame di intimità, di condivisione e di scambio tendenzialmente appagante si risvegliano parimenti desideri infantili di sicurezza, mai del tutto superabili dalla specie umana.
La presenza del partner amorevole ripropone sempre in filigrana l’ombra del rapporto con la madre. Più la relazione è equilibrata più entrambi i partner hanno attenzioni l’uno verso l’altro senza soffocare le rispettive libertà; inoltre più la componente del desiderio è forte, più essa mantiene la coppia in un dinamismo che la mette al riparo dall’eccesso di familiarizzazione (purtroppo uno dei motivi di sofferenza di molte coppie, anche unite e affiatate).
A rigore non si può dunque parlare di dipendenza affettiva là dove ci si vuole bene reciprocamente, ci si aiuta e si rispettano le esigenze di autonomia dei singoli. È normale che buona parte del sentimento di serenità individuale (se non addirittura di felicità nei casi più fortunati) “dipenda” dall’esistenza dell’altro.
Per riferirsi alla dipendenza patologica in una coppia bisogna che essa continui a sussistere anche quando vengono a mancare i due mattoni portanti, ovvero la cura (intesa anche come volontà di superare i propri egoismi in favore del bene del partner) e il rispetto dell’individualità dell’altro (assenza di prevaricazione, manipolazione, controllo ecc…)
Gli altri problemi, difficoltà nella comunicazione, nella sessualità, conflittualità accesa ecc… se non travalicano il limite della violenza psicologica/fisica fanno parte delle ordinarie complicazioni fra esseri umani (che prese in se stesse non sono sufficienti a qualificare un rapporto come interamente patologico).
Nei legami eterosessuali (ma anche nelle unioni omosessuali) si presenta immancabilmente l’ostacolo della differenza sessuale oltre che caratteriale, con tutto il suo correlato di incomprensioni, delusioni e smarrimenti. La volontà di capire l’altro, di provare a mettersi in discussione e di smussare alcuni angoli fanno la differenza ai fini dell’evoluzione possibile della coppia.
Prendere atto delle differenze individuali e portare avanti un confronto diretto (fatto di scambi e di riflessioni autonome) si rivela non solo un punto di svolta virtuoso, ma anche una possibilità, interessante in quanto tale. Ciò non risulta facile e immediato ma è pur vero che in genere confrontarsi con cose difficili vale la pena, perché stimola e cimenta, aumentando il grado di maturità e di apertura mentale.
Inoltre imparare a lasciare andare e a convivere con l’imperfezione del legame concreto rispetto a quello idealizzato restituisce molta più pienezza, perché allora si vive e si gode di quello che c’è così com’è, senza rabbia e accanimento. Ognuno di noi ha grandezze e limiti e nell’amore, forse, accettare il limite rende l’esperienza ancora più densa, più vivida e concreta.
La dipendenza patologica
Tornando alla questione della dipendenza “malata”, mancanza di cura e di rispetto dovrebbero essere i due campanelli di allarme da non sottovalutare per stabilire il livello di tolleranza accettabile oltre il quale si sfocia in una dinamica sado masochistica.
Chi tollera (in nome dell’amore e del perdono) gravi mancanze di rispetto (come violenze fisiche o psicologiche)mostra un grado di fragilità importante, che lo porta a giustificare gli abusi del compagno a partire da una sua supposta insufficienza.
La bassa autostima, intesa come convinzione di essere bambini fragili, bisognosi di un sostegno autoritario che tuteli la propria esistenza, svela il tratto dipendente.
In gioco non c’è la traccia dell’oggetto materno perduto, come nella dipendenza “normale”, ma la necessità imperiosa di vivere concretamente sotto il controllo di un genitore sostitutivo, in genere possessivo e violento.
Così la lamentela per il torto subito (abuso fisico, maltrattamento psicologico, incuria e menefreghismo), sebbene sia espressa con l’intensità emotiva straziante tipica del bambino, non porta poi verso un movimento deciso di ribellione e di riaffermazione del proprio diritto a esistere come soggetto degno di rispetto.
Analogamente a ciò che può fare un bambino il dipendente affettivo resta in casa, timoroso e infelice, ma attaccato pertinacemente al carnefice, da cui continua ad aspettarsi amore (incassando rifiuti e punizioni).
Stare male assume connotati desiderabili, come accade ai tossicodipendenti con le sostanze stupefacenti. Essi sanno che si fanno del male ma vanno avanti lo stesso nell’autodistruzione, per via di un inquietante piacere, impiastrato con la sofferenza.
C’è da dire inoltre che in coppie di questo tipo i problemi arrivano sempre dopo una rapida ma intensissima fase di idealizzazione. Alle prime, dolci docce calde seguono via via getti d’acqua sempre più freddi, ai quali le vittime sono introdotte per gradi. Esse si ritrovano nel pieno degli abusi senza più riuscire a capire come ci sono finite.
Non è raro che finiscano per scusarsi e inchinarsi al volere di sua maestà il carnefice, anche quando hanno tutti i motivi per avere reazioni scomposte.
La controparte “sadica” della coppia non è da meno in quanto a dipendenza. Chi usa la violenza lo fa per tenere avvinto l’altro, per disporne come vuole. Senza, sarebbe finito. Per questo spesso le minacce di abbandono da parte delle loro vittime esasperate ingenerano il falso movimento del pianto a dirotto o della scusa plateale. Esso non è mai vero pentimento o dispiacere autentico per i danni inflitti all’altro. Si tratta piuttosto di un moto di disperazione di fronte alla possibilità di restare senza l’oggetto “discarica” della propria rabbia, con in più il vantaggio secondario dato dall’impatto emotivo sulla vittima (che si impietosisce anziché scappare a gambe levate)
La terapia della dipendenza affettiva
La terapia non è facile in questi casi, perché le persone coinvolte spesso se sul piano razionale capiscono, su quello più inconscio non sono disposte (o forse non sono davvero in grado) a cambiare nonostante le prese di consapevolezza.
La guida del terapeuta è tuttavia importante, non solo perché aiuta a decifrare ancora più lucidamente la dinamica in gioco, tutto sommato per molti aspetti già chiara alla coscienza.
In questi percorsi non conta tanto capire (le persone in genere sono consapevoli di molte cose) quanto essere accompagnati. La dipendenza viene sostituita con un’altra dipendenza, che però ha lo scopo di rendere capaci di muoversi da soli (la dipendenza dalla terapia è destinata a sciogliersi)
Il terapeuta nel corso del tempo, grazie al suo atteggiamento di sostegno, può favorire una presa di distanza graduale, impercettibile ma solida. Di rado infatti la lucidità acquisita sfocia in decisioni di petto, drastiche e coraggiose.
La presenza fissa non giudicante e non autoritaria del terapeuta può aiutare a sviluppare un po’ di quella indipendenza mai raggiunta nella vita.
Il paziente può sperimentare, può provare a muovere dei passi per conto proprio potendo contare su un supporto che non chiede nulla e che incentiva atteggiamenti e pensieri soggettivi.
Così procedendo piano piano il ruolo del partner patologico si può svuotare di importanza e di significato, lasciando spazio a inesplorate possibilità di liberazione.
Una volta assaporato il piacere della sobrietà, una volta testate le possibilità che essa offre sarà finalmente possibile lasciare andare.