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La parola terapeutica

Parlare non ha sempre una funzione realmente costruttiva. La parola che funziona in terapia (ma anche nella vita di relazione) bisogna che mostri due caratteristiche imprescindibili, senza le quali si impantana nel semplice sfogo, nell’esibizionismo compiaciuto o peggio ancora nella manipolazione.

Le qualità della parola

Le due qualità preziose della parola consistono nell’orientamento verso l’altro (il rivolgersi ad un interlocutore, anche fittizio) e nel legame stretto con una forma di pensiero (logico razionale o di natura associativa ed evocativa).

Mettere semplicemente in fila delle parole infatti non è sinonimo nè di comunicazione (rivolgersi davvero all’altro) nè di pensiero (lucido o onirico che sia). Il silenzio se ci pensiamo da questo punto di vista può essere molto più incisivo e significativo di una montagna di parole messe giù con finalità evacuative, ostentative o seduttive.

A volte l’opzione del silenzio che “vale più di mille parole” può essere indicata quando l’interlocutore non vuole o non sa ascoltare davvero; in questi casi esso si rivela un gran risparmio di tempo e di energie, lasciando che il messaggio arrivi (o non arrivi) a chi ha orecchie per intendere. 

Il silenzio parimenti può esprimere grande empatia e vicinanza, oppure rappresentare rifiuto, chiusura e indifferenza. In ogni caso si lega quasi sempre a una precisa intenzionalità e a dei contenuti autentici.

I due attributi che danno valore al parlare sono quindi  la dialettica (ovvero l‘orizzonte dell’altro come qualcuno che riceve, rielabora e potenzialmente può rispondere e contribuire alla complessificazione del discorso) e l’aggancio al pensiero (conscio o inconscio che sia).

Parola e cambiamento 

Dialettica e ancoraggio al mentale sono così importanti in terapia, ma anche nei rapporti interpersonali, perché rendono il parlare qualcosa di diverso dal mero rumore, dalla scarica d’eccitazione, dall’elenco lamentoso dei mali e dal pavoneggiarsi solipsistico. 

Lo spazio potenziale del cambiamento è dato da queste condizioni: tenere conto che c’è qualcuno che ascolta e che può intervenire (modificando il corso del discorso) e mantenere un contatto trasformativo con i contenuti mentali, che vengono quindi elaborati nel mentre espressi (non soltanto scaraventati fuori).

Parlare in tale accezione permette lo sdoppiamento necessario per ascoltarsi davvero (tenere conto dell’altro implica l’auto ascolto) e per lasciarsi andare nel flusso del discorso alla scoperta di qualcosa di nuovo, che prima non c’era.

La concentrazione in questi stati della mente è molto elevata ed è affine alla meditazione. Spesso in terapia ci si arriva grazie all’ascolto e all’interpretazione del terapeuta, la cui mente si trova in uno stato profondamente recettivo.

Si crea così un campo condiviso in cui le parole sono in realtà oggetti mentali mentre i ricordi e le emozioni accantonati riacquisiscono un’attualità e uno spessore materiale tale per cui vengono rivisti, e per la prima volta compresi davvero.

Entrambi, paziente e terapeuta, non si limitano a scambiare informazioni ma vengono investiti da affetti potenti, che hanno il grande pregio di mettere in contatto con verità tenute troppo a bada (ci si ammala in genere per un eccesso di difesa protettiva rispetto ad alcune verità penose). 

La sofferenza c’è ma è propedeutica a un alleggerimento successivo, che spesso coincide con una nuova dimenticanza libera dai sintomi.

È chiaro che questi livelli di intensità non vengono raggiunti in tutte le sedute e da tutti nella stessa misura.

Esistono molte variabili che li rendono più o meno accessibili. Tuttavia chiunque abbia esperienza di un percorso terapeutico serio ne ha fatto esperienza, presto o tardi, a lungo o in momenti isolati.

Che molta parte della terapia sia ingolfata dal monologo autoreferenziale è un fatto non eliminabile. C’è chi è più portato e chi meno a unire pensiero e parola.

Ma quando l’occasione si presenta il terapeuta ha il dovere di aiutare a interrompere l’uso sterile della parola,anche solo momentaneamente, facilitando per tale via lo sviluppo della capacità autonoma di parlare con costrutto. 

La terapia rappresenta così anche un luogo in cui si può apprendere  a parlare in modo diverso e ciò ha indubbiamente delle ricadute nella vita di relazione.

Le relazioni di chi è ingaggiato in un percorso di terapia migliorano non solo per effetto dell’alleggerimento sintomatico che porta maggior benessere e buon umore. 

Esse fanno un salto di qualità per effetto di tale nuova dimestichezza con la parola.

Chi è paziente finisce poi nella vita per scoprirsi un po’ terapeuta con il prossimo ma non perché  si mette a terapizzare tutti (cosa non auspicabile).

Egli si ritrova a dare spazio agli altri senza più giudicarli e senza più lo spasmodico desiderio di sedurre, avendo sviluppato nel suo percorso terapeutico personale una nuova capacità di ascolto e di decentramento rispetto a se stesso.

Aiuto psicoterapeutico