Fiducia e cambiamento
In alcune personalità la persistenza nel tempo della sofferenza e dell’inquietudine, nonostante infiniti ragionamenti e tentativi di recupero del benessere perduto, si può attribuire a convinzioni di fondo di natura nichilistica.
Il credo nichilistico
La psicoterapia, dopo le prime fasi di apparenti progressi, spesso si infrange contro questo nucleo inscalfibile di pessimismo, che nega e ritiene senza significato i valori della fiducia, della tenacia, della solidarietà e della lealtà nelle relazioni interpersonali.
Tale zoccolo duro pieno di negatività impedisce qualsiasi vero cambiamento di prospettiva: di fatto non esiste più speranza per chi si è perso.
Il credo nichilistico, inconscio e non apertamente formulato, suppone infatti che l’essere umano non abbia un’anima, ma coincida soltanto con la propria natura tangibile, quindi con l’immagine che gli altri possono vedere.
Una volta persa l’apparenza di successo si è semplicemente spacciati, finiti, a meno che una circostanza esterna non cambi.
E quando nessuna salvezza può venire da fuori per recuperare l’immagine, non si riesce ad attingere a nessuna risorsa interiore. La condanna a una vita di serie b, schiacciata dalla memoria del tempo che fu, resta la sola opzione praticabile, con tutto il relativo corredo emotivo luttuoso e angosciato.
Purtroppo le persone che hanno questa impostazione mentale solo raramente riescono a metterla in discussione, ad aprire una breccia nel muro delle loro credenze.
La depressione di cui soffrono è l’esito e non la causa dell’idea di fondo che l’uomo sia solo una cosa fra cose, e che l’unica differenza la faccia la sua apparenza (più o meno brillante).
A pensarci ogni volta che riusciamo a sentirci meglio dopo una batosta, una delusione o un rifiuto stiamo in realtà recuperando una rappresentazione di noi stessi non esteriore, facciamo cioè riferimento al nostro valore come persone, al di là degli accidenti che possono capitarci.
E così ci prendiamo cura, ci dedichiamo a ciò che ci fa stare bene, dimentichi dell’immagine esteriore e delle opinioni degli altri. Tendiamo a circondarci dell’affetto di chi ci vuole autenticamente bene, per quello che siamo anche nella nostra imperfezione.
Il nichilista invece supera una delusione o un problema solo se può compensare la caduta narcisistica tramite l’immagine: non di rado si dedica allo shopping o al sesso compulsivo, per confermare a se stesso l’idea di essere una merce ancora appetibile sul mercato.
Ma se la bellezza svanisce, il lavoro prestigioso è perduto, la ricchezza esaurita e la salute traballante che fare? Si è al capolinea, gettati nella grigia e mediocre normalità di oggetti senza significato.
La fuga dalla socialità in questi casi non avviene perché si riconosce la fatuità e vuotaggine di certi ambienti, ma perché si sa che si verrà giudicati e irrisi dai così detti “vincenti”, coloro che possono ancora vantare importanti guarnizioni o brandelli di esse.
Da ciò deriva la grave intossicazione dell’invidia, che non fa che peggiorare il rapporto già compromesso con il proprio sè, percepito ormai come dolorosamente lontano da certi standard.
Resta così un malsano attaccamento agli oggetti, con i quali si stabilisce un rapporto basato sulla venerazione feticistica. Il possesso di questi cimeli ringalluzzisce parzialmente l’amor proprio, in un’atmosfera che resta tuttavia cupa, solitaria e triste.
Credere e vedere l’anima invisibile
Così si scopre che per funzionare la psicoterapia suppone la credenza nell’anima. Se si crede, si ha fiducia nel nostro essere irriducibili alla materia (il che non necessariamente implica la fede nell’immortalità), c’è speranza in ogni situazione ci si trovi.
L’angoscia e la depressione non possono prendere il sopravvento e quando ciò accade la loro presa risulta reversibile.
Vedere l’anima propria e altrui è la fonte della gioia di esserci, nonostante le condizioni avverse e difficili. È la condizione fondamentale alla base di rapporti umani autentici, che traggono beneficio da uno scambio non superficiale anche quando semplice e di poche parole.
In genere la famiglia passa qualcosa di questo tipo. Se si viene allevati nella solitudine e nella gratificazione di comportamenti di successo, senza venir aiutati a integrare le performance scadenti senza che esse intacchino l’amor proprio, non si impara ad amare il sè e gli altri come esseri sacri e misteriosi, da rispettare più che venerare.
Purtroppo viviamo in una società che offre poco oltre al mito del consumo. Se la famiglia fallisce o non si fanno altri incontri il rischio è quello di restare impigliati in una ragnatela stritolante, in una stanza grigia e angusta senza poter spaziare in dimensioni potenti, vivificanti e invisibili allo sguardo.
Bisogna dunque, prima di tutto (con uscite nella natura, immersione nell’arte, meditazione ecc..) ripartire dal senso di meraviglia verso la natura vivente. Recuperare il silenzio. Trovare una connessione con l’interiorità. Sforzarsi di non farsi contagiare da un’idea semplicistica e stereotipata di felicità.
Allora i limiti del nichilismo balzeranno agli occhi, mentre il bagliore della speranza farà capolino con il suo effetto calmante.