Il coraggio nell’ora più buia
“L’ora più buia”, film diretto da Joe Wright uscito nel gennaio 2018 nelle nostre sale cinematografiche, offre degli spunti di riflessione utili sul tema del coraggio, a partire dalla ricostruzione della vicenda umana di Winston Churchill. Ciò a prescindere dalle reali implicazioni storico politiche del suo operato, soggette nel tempo a revisioni critiche anche radicali rispetto all’esaltazione senza riserve del dopoguerra. Il film fornisce infatti un’immagine certamente idealizzata del capo di stato inglese, ne mette in luce solo l’aspetto eroico, deliberatamente bypassandone il lato più oscuro e reazionario.
Detto ciò il presente commento si basa sulla figura del personaggio così come viene presentato nella fiction, senza l’illusione che questi corrisponda esattamente alla figura storica, ben più complessa e ambivalente.
Il film
Il film punta la lente di ingrandimento sulla difficile decisione che il neo primo ministro britannico si trova a prendere agli albori della seconda guerra mondiale per fronteggiare la minaccia hitleriana: patteggiare con il nemico che sta per aggredire la nazione e dunque perdere autonomia e libertà o combatterlo coraggiosamente affrontando il rischio della sconfitta e della morte? Soccombere alla tirannia o fronteggiare la paura ed opporre resistenza? Arrendersi alla fine di un mondo o lottare per la sua sopravvivenza? Accettare una morte in vita o battersi fino alla morte per difendere la vita nella sua accezione più alta?
Il processo psichico che porta il protagonista verso la scelta, ovviamente romanzato e non privo di note idealizzanti, così come viene presentato ha il pregio di tener conto dei tentennamenti, del travaglio interiore, del lavorio mentale ed emotivo che ne precede l’atto. La stessa personalità dell’uomo è resa nelle sue contraddizioni e debolezze, pur senza diminuirne la statura. Anzi, stando alla ricostruzione del film, si ha la percezione netta che la grandezza del personaggio derivi proprio dalla sua eccentricità personale, dall’irregolarità del suo modo di sentire ed esprimersi, dalla sua contraddittorietà, dalle spinte opposte che si agitano in lui, dal rifiuto di aderire a schemi e modalità scontate. Si tratta di un uomo che ha in primis il coraggio di essere se stesso ma che al contempo tiene conto dell’Altro pur senza farsene schiacciare.
Le enormi pressioni a cui è sottoposto da parte di colleghi impauriti affinché scelga la via di una supposta “via diplomatica” colludono con la voce della sua coscienza morale, che per definizione frena l’istintività in nome della razionalità e del bene comune. Ma dal confronto con l’istanza morale il presidente eroe sembra uscire rafforzato: i dubbi di cui è preda, anziché paralizzarlo, lo spingono a capire meglio le ragioni dell’Altro.
L’episodio mitico del confronto con il re, nonché quello altrettanto romanzato del dialogo con la gente comune (che Churchill andrebbe deliberatamente ad incontrare in un luogo pubblico come la metropolitana), gli fanno capire quanto la sua concezione sia condivisibile e condivisa, anche se non da tutti. Forte di ciò, forte cioè di un’idea profondamente personale ma non delirante (e non senza l’Altro direbbe Lacan), può andare dritto verso quell’atto che risulterà decisivo (secondo la lettura storica più accreditata) per le sorti della democrazia occidentale.
Come fronteggiare con mezzi di pace la follia omicida di un paranoico come Hitler? L’intuito di Churchill, sempre stando al film, sta nel cogliere la trappola insita nella trattativa: patteggiare con un nemico sleale e ancora peggio mosso da idee megalomaniche significa sottomettervisi, significa porre le condizioni del proprio annullamento soggettivo. La logica della difesa, della resistenza in quello snodo delicato della seconda guerra mondiale non va in ogni caso paragonata a quella che recentemente ha ispirato la retorica di molti capi di stato per giustificare assurde guerre in paesi lontani.
Uniformarsi o resistere rischiando la morte?
Ma considerazioni storico politiche a parte, il personaggio “romanzato” del primo ministro britannico attira l’attenzione di uno psicoanalista semplicemente nella misura in cui ben si presta a rappresentare il coraggio di fronte ad un tipico dilemma esistenziale: uniformarsi al potere e morire interiormente o lottare accettando il rischio di soccombere nel nome di una vita autentica?
Parlare di coraggio ai nostri giorni è essenziale, nella misura in cui moltissime domande di aiuto che riceviamo in studio o nelle istituzioni vertono su questo tema, ovvero il livellamento ottuso e senza speranze rispetto ai non valori imperanti nelle famiglie, negli ambienti di lavoro, nelle comunità di ogni genere.
La soggettività più vera oggi è terribilmente in crisi, incontriamo giovani e meno giovani promettenti che vedono svanire la loro creatività in un adeguamento conformistico a ciò che è socialmente codificato come tale. L’apparenza, le mode, il conformismo più sfrenato imperversano in ogni campo, dando luogo una vera e propria subdola tirannia post moderna verso cui ogni ribellione appare sempre più difficoltosa, pena l’esclusione sociale.
Il compito di uno psicoanalista invece è proprio quello di opporre resistenza ad ogni condizione che vada a ledere la soggettività individuale, pur restando dentro i confini dell’Altro, pur trovando delle invenzioni per rimanere in seno alla società e contribuire in maniera più o meno silenziosa ad un suo sviluppo virtuoso. Che sia l’autoritarismo di un padre, di un coniuge, di un capo, di un ambiente di lavoro, di un’ideologia o persino di una malattia il soggetto ha il dovere etico di opporre resistenza, pena la sua morte psichica.
Il coraggio è dunque sempre ancorato ad una fedeltà e fiducia in se stessi che comporta fatica, costi a volte anche molto alti. La scelta di combattere della figura mitica di Churchill è una grande metafora dell’ingente mobilitazione di forze psichiche (un vero e proprio esercito) necessaria a non soccombere a qualsivoglia sopraffazione, dalla più sottile e quasi inavvertita alle grandi avversità della vita.
Ogni volta che cediamo sui nostri ideali o sulle aspirazioni alla realizzazione di una libertà senza compromessi lasciamo spazio alla morte in vita, e lo sentiamo perché i conseguenti sentimenti depressivi ci informano con precisione del nostro atteggiamento rinunciatario. Per questo è sciocco tentare di contrastare molti affetti depressivi con le medicine, con gli psicofarmaci. Essi certo, adattano, schiariscono le nubi nere dell’umore depresso, ma in cambio decretano definitivamente la morte psichica.
Mentre la decisione di combattere, di non arrendersi alle pressioni omologanti e alle avversità rende vivi, vigili, in connessione con la propria verità. Nella lotta per l’affermazione della vita viviamo, pur tollerando il rischio della morte, al contrario nella ricerca di una sterile conservazione dell’esistente deperiamo lentamente come morti viventi.