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Io, figlio di mio figlio: parla Gianluca Nicoletti

“Io, figlio di mio figlio” (l’ultimo libro di Gianluca Nicoletti edito recentemente da Mondadori), a differenza dei precedenti più centrati sull’autismo del figlio Tommy, si concentra sulla tardiva scoperta da parte dell’autore dei propri tratti autistici.

Sindrome di Asperger” è la diagnosi che viene formulata all’età di sessant’anni, una forma di autismo ad alto funzionamento generalmente associato ad un quoziente intellettivo superiore alla norma che non compromette l’uso del linguaggio e che consente, pur con molte difficoltà, di “arrangiarsi” nel lavoro e nelle relazioni. Una sorta di autismo sfumato, meno estremo e radicale e tuttavia non così distante nell’essenza da quello vero e proprio.

Tale diagnosi, ad un certo punto del proprio percorso esistenziale cercata volontariamente, per il giornalista scrittore risulta illuminante, in grado così di inserire in una cornice nuova di senso il feeling particolare instaurato con il figlio (“ci unisce lo stato di perenne osservazione del mondo in cui siamo capitati, a cui sentiamo di appartenere solamente in quei pertugi di tempo in cui siamo sereni”) , le numerose bizzarrie caratteriali che negli anni gli vengono rimandate dagli altri e quel senso di intima estraneità dal mondo e dalle sue regole sociali percepito da sempre.

I tratti Asperger

I tratti propriamente Asperger Nicoletti li riconosce nella “molteplice sequenza di fraintendimenti su cui si sono basati tutti i miei rapporti con gli esseri umani, nessuno escluso”. I propri simili infatti per un soggetto Asperger sono avvolti da una coltre di indecifrabilità, una sorta di cecità mentale rispetto alle loro intenzioni, ragioni, sentimenti. Tale incomprensibilità spinge a non ascoltare, a interrompere l’interlocutore, a dire sempre ciò che passa per la testa apparentemente senza tatto, a restare indifferenti verso chi esprime sentimenti positivi e magari poi ad entusiasmarsi per persone che alla fine si rivelano francamente deludenti.

I fallimenti relazionali che ne derivano vengono dolorosamente percepiti, spesso ingenerando una buona quota di ansia e depressione. Così nel tempo l’Asperger migliora il proprio comportamento sociale ma non perché “ guarisce”. Semplicemente grazie alla sua spiccata intelligenza mette in atto e affina nel tempo delle personali strategie, come puntualizza Nicoletti “per riuscire ad arrabattarmi e a convivere in un mondo popolato da estranei indecifrabili”.

Tuttavia la meticolosa maniacalità, il linguaggio “torrenziale” spesso raffinatissimo ma tendenzialmente monologico, una certa accelerazione di “un cervello che va a mille” a cui si accompagna una scarsa attenzione verso ciò che ha da dire l’altro, la tendenza a esprimersi senza filtri, a stare da soli e a provare insofferenza per i legami, le consuetudini sociali e le ritualità che non siano le proprie, restano tratti tipici e non modificabili.

La metafora della Ferrari

Nicoletti offre una metafora calzante per farci capire non solo la sua specifica condizione, ma quella di tutti coloro che vivono una qualche diversità. “È come se avessi una Ferrari ma fossi costretto ad usarla per trasportare la spesa dal supermercato a casa altrimenti muoio di fame. È una vita che mi adatto e questo costa fatica: io in questo lavoro minuto per minuto mi brucio tutti i cavalli del mio motore a dodici cilindri. Con tutta la potenza di una mente fuoriserie impiegata per galleggiare nella norma, non me ne resta nulla per fare cose geniali, sgaso e sfriziono al volante della mia Ferrari ma rimango sempre dove sono ”.

La così detta “neuro diversità” si iscrive così nella categoria più ampia di “diversità” rispetto alla “tipicità”, al pari di un vero e proprio handicap. La metafora della Ferrari coglie la condizione di chi ha dei talenti e delle risorse preziose ma non può svilupparli in tutta la loro potenza generativa a causa di un limite oggettivo e invalicabile.

In alcune parti del testo Nicoletti rivendica il diritto (per se stesso e per altri portatori di diversità) ad altre forme possibili di esistenza rispetto a quella dominante, interrogandosi lucidamente sul futuro del figlio “non autosufficiente”. Se non si rassegna ad una sua morte psichica conseguente alla morte reale del suo unico punto di riferimento (ossia lui stesso, il padre), non sembra tuttavia mai perdere di vista la brutalità inaggirabile insita in ogni diversità, la sofferenza, l’aspra e amara coscienza della mutilazione unitamente all’effetto espulsivo da parte della società.

Diverso “può” essere bello

“Diverso è bello” rischia di diventare uno slogan vuoto se si perde di vista l’impatto estraniante e logorante della fatica di adattarsi, di nuotare contro corrente in tante, invisibili piccole cose e situazioni del quotidiano. Certo, diverso può essere bello, ma dopo una discesa agli inferi potenzialmente mortale, dopo un contatto ustionante a cui non tutti riescono a sopravvivere e che pochissimi riescono a ribaltare in una risorsa. Ed anche quando ne viene fuori un “ super potere” esso è sempre controbilanciato da uno zoppicamento, una fragilità radicale che, se non assunta fino in fondo, può far riprecipitare nel precipizio.

Questo è il motivo per cui tutte le associazioni di persone colpite dallo stesso handicap e dal rischio conseguente di stigma sociale non possono riparare i singoli dal confronto con la propria particolarità inassimilabile. L’orgoglio esibito per l’appartenenza a qualsiasi categoria di “diversi” tenta di trasformare un meno in un più, in un rovesciamento difensivo che, cercando di negare il doloroso incontro con il meno (sempre personale, soggettivo, mai standard) finisce con il fissarlo in un’identificazione paralizzante.

Allora la Ferrari non potrà correre nel reale, e questo è un fatto inaggirabile e un sofferto dato di realtà, ma nel suo modesto percorso potrà trasportare cose grandi e ispirarne altrettante in chi è in grado di ammirarla nella sua offesa ma fiera bellezza.

 

Sindrome di Asperger