Elogio del vuoto

Il lavoro, la famiglia, le relazioni occupano tutto il nostro tempo, lasciandocene molto poco per noi stessi. Ma cosa significa averne per noi stessi? Vuol dire buttarsi a capofitto in altre attività, questa volta finalizzate a procurare diletto solo alle nostre persone e che riempiano gli interstizi rimasti liberi dalle incombenze del quotidiano? È questo che significa avere tempo? Possederlo come un bene da far fruttare?

In effetti l'idea del tempo come una risorsa preziosa che non va sprecata con l'ozio permea completamente la nostra mentalità. Oggi giorno siamo talmente orientati verso il fare, da essere diventati del tutto intolleranti nei confronti del vuoto. Da una parte sembriamo invocarlo, lagnandoci di un senso di oppressione provocato dalla routine. Dall'altra, nel momento in cui ci si palesa davanti, sia nella forma programmata di una vacanza o del riposo serale, che in quella improvvisa di un'ora libera per via di un appuntamento di lavoro annullato, immediatamente ci chiediamo: e ora cosa facciamo? La nostra mente con una certa apprensione sembra subito porsi il quesito di come fare a riempire il buco minaccioso che ci si è aperto davanti. Ci comportiamo alla stessa maniera anche con i silenzi: pure il parlare, come il fare, diventa un modo per lenire un' ansia, un'irrequietezza di fondo legata alla cessazione di stimolazione.

Fare, e perfino parlare, sotto questa luce appaiono come delle droghe che ci distolgono dall'ansia del vuoto ma che ci rendono pure dipendenti. Senza ci sentiamo persi, di nuovo preda di un malessere che vorremmo sfuggire perché non sappiamo farci i conti. In effetti il vuoto spaventa perché mette in contatto con le nostre emozioni più profonde, ci spinge verso l'interno più che verso l'esterno e ci forza ad ascoltarci, a porci degli interrogativi, a dar retta a quella voce interiore purtroppo silenziata dalla predominanza nelle nostre esistenze della stimolazione sulla riflessione. Così che il vuoto ci minaccia perché noi stessi siamo svuotati dalla superficialità a cui ci chiama la vita moderna. Ci troviamo ad essere ridotti al rango di creature che rispondono benissimo e prontamente a performance complesse ma che poi non sanno tollerare un momento di stasi, di libertà. Come piccole scimmie ammaestrate, che finiscono per amare la loro prigionia. Credendo di volere davvero ciò che invece è solo abitudine.

Come uscire dunque da questa schiavitù? Come tornare a pensare, a godere del tempo lungo del non far nulla? Come essere a proprio agio, rilassarsi in una dimensione che prevede la cessazione del fare? Come sviluppare un'attitudine contemplativa che vada a controbilanciare l'ipertrofia di quella reattiva?

Chiaramente non c'è un fare, non esiste una prassi, un manuale a cui attenersi per recuperare un po' d'autenticità perduta. Un contributo in tal senso lo può offrire un percorso psicoterapeutico, che, con la sua prossimità al silenzio e all'assenza di stimoli può riportare in contatto con le parti più profonde del proprio sè, trascurate e dimenticate nel nome di un iper adattamento alle richieste ambientali. Che, se troppo assecondate, determinano un fatale sacrificio di quegli elementi soggettivi e creativi che solo una vicinanza con la solitudine e l'assenza di attività può portare alla luce.

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