La solitudine del bambino
Sguardo sfuggente, sorriso (se proprio si deve fare) appena abbozzato, spalle ricurve, andatura incerta, tic nervosi, inappetenza. Oppure, solo apparentemente al rovescio, occhi dall’espressione febbrile che non poggiano mai su nulla, risata sguaiata, atteggiamento da bullo, ostinazione, fame insaziabile.
Il sembiante del bambino preda di sentimenti di vuoto e di solitudine è sempre lo stesso, la mimica, il corpo non possono nasconderne il disagio, che spinge subdolamente verso l’implosione o violentemente nella direzione della deflagrazione.
Eppure, nonostante tutto, questo bambino tendenzialmente non cessa mai di offrire all’adulto degli spunti per essere aiutato. Anche se apparentemente rifiuta ogni mano tesa la sua necessità di attenzione non si spegne.
Spesso esso si manifesta con richieste assillanti, piagnucolose e incontentabili oppure con comportamenti fastidiosi, provocatori, esibizionistici o palesemente contro le regole. Il bisogno di essere visti non si eclissa mai del tutto, salvo in casi estremamente gravi in cui si verifica una sorta di pietrificazione vitale.
I problemi dei genitori contemporanei
Il bambino solo è tipicamente il figlio della contemporaneità. Ha tutto sul piano dell’avere ma pochissimo su quello della presenza. I suoi genitori, non raramente già separati dopo pochi anni di matrimonio, sono eccessivamente assorbiti dal lavoro, dalle loro vite irrisolte e dai problemi della vita pratica.
La questione dell’invasività del lavoro a discapito della vita privata oggigiorno non colpisce più soltanto i professionisti di alto livello, ma ormai anche quelli “medi”, che guadagnano bene (pur senza essere ricchi e senza occupare posizioni apicali) o che, ancora peggio, fanno salti mortali per mettere insieme uno stipendio decente.
Tutti i lavoratori oggi (a parte gli impiegati semplici con contratti sicuri, che possono permettersi di lavorare otto ore secche e poi staccare allo scadere del tempo dovuto all’azienda), rispetto a solo trenta/quarant’anni fa sono costretti a erodere dalle giornate molto del tempo tradizionalmente dedicato alla famiglia e ai figli, pena l’espulsione dall’ingranaggio lavorativo.
E sul lavoro tutti debbono performare, non solo in termini di resa. Bisogna apparire sempre giovani, dinamici, brillanti.
Ne deriva una situazione in cui i bimbi vivono concretamente una condizione di solitudine affettiva, soprattutto quando nessuno dei due genitori ha la possibilità di lavorare meno, di essere socialmente meno splendente e di dedicare più energie alla famiglia.
Come può un bambino non andare incontro a sentimenti di abbandono quando magari un padre lavora in un’altra città e la madre torna a casa alle otto di sera, stanca, nervosa e bisognosa solo di silenzio e di pace? Come può un piccolo non sentirsi invisibile nel vedere rincasare una mamma che sosta giusto il tempo di cambiarsi per poi uscire nuovamente per la cena di lavoro?
Il bambino che ha passato la giornata a scuola e poi con la baby sitter, la tata o nonna che sia, come potrebbe non cercare di attirare l’attenzione di genitori visibilmente lontani sul piano psicologico? E come giudicare quel padre o quella madre distrutti dalla stanchezza che diventano sbrigativi verso le richieste affettive e intolleranti rispetto ai comportamenti “troppo vivaci” dei loro bambini? Come possono opporsi alla dipendenza da videogiochi, da televisione o da cibo se essi sono l’unica cosa che sembra momentaneamente placare la fastidiosa richiesta di attenzione del figlio?
Accanto alle madri e ai padri che hanno la fortuna di essere complici e affiatati nonostante la durezza della vita, e che dunque possono trarre anche dal rapporto l’energia vitale per i loro piccoli, quante coppie sono in difficoltà se non in guerra fra di loro? Senza pensare alle problematiche di natura psicologica che, già presenti, in molti individui si accentuano proprio dopo la nascita dei figli.
Ci vuole un equilibrio di ferro per conciliare i ritmi e la complessità imposti dalla società in cui viviamo con la domanda insaziabile di amore e di presenza dei bambini. Considerando anche che gli adulti diventano genitori sempre più in là con gli anni, quando le energie cominciano a calare e certe abitudini da persone totalmente libere di disporre del proprio tempo extralavorativo faticano a essere cambiate.
I genitori di quarant’anni con figli piccoli fanno una fatica supplementare a rinunciare a hobby, interessi e attività varie consolidate almeno per un decennio di vita senza troppe preoccupazioni.
Mettiamoci anche il tipo di mentalità “egoistica” ed “edonistica” figlia di questi tempi e si coglie appieno quanto alla base della sofferenza del piccolo ci sia sempre la difficoltà del genitore, in un modo o nell’altro. Lo spirito di sacrificio non è più un valore condiviso, sotto alcuni punti di vista fortunatamente. Allora a cosa appellarsi?
La cura dei genitori cura il bambino
In questo scenario è quanto mai necessario allora che i genitori affinino le loro capacità di osservazione e trovino la forza di rendersi conto quando i figli hanno dei sintomi, anziché colpevolizzarli, rimproverarli e far sotto sotto finta che vada tutto bene.
Mettere la testa sotto la sabbia raramente paga, così come non è produttivo esasperare con previsioni catastrofiche una condizione che può essere superata. L’infanzia, fortunatamente, è un territorio molto malleabile e cambiamenti anche radicali possono avvenire.
Vedere dunque serve, serve molto per aggiustare il tiro. Se le condizioni esterne non sono modificabili in termini di riduzione di orari di lavoro bisogna concentrarsi sulla qualità del tempo che i bimbi trascorrono fuori e dentro casa.
Evitare di sovrastimolare il piccolo con troppe attività al di fuori della scuola è fondamentale, così come lo è cercare di non lasciarlo troppo a lungo in balia di internet e del rapporto solipsistico con la tecnologia o il cibo spazzatura.
Il genitore così come può affinare la sua sensibilità rispetto alla sofferenza del bambino, può anche migliorare la capacità di osservazione dei suoi eventuali talenti o punti di forza, tentando di coinvolgerlo in attività condivise.
Chiaro che per tutto ciò ci vuole tempo, tempo da sottrarre a se stessi, al proprio sonno e alle proprie esigenze narcisistiche.
Se è vero che il bimbo ha bisogno di abituarsi a giocare da solo e di diventare autonomo, è altrettanto vero che egli necessita per molto tempo di un contenimento genitoriale, che serve a sostenere e a non soffocarne la soggettività nascente.
Il piccolo va guardato negli occhi, ascoltato, coccolato e al tempo stesso lasciato libero di esprimersi. L’adulto può prendersi i suoi spazi, conscio però che la vita non può più essere la stessa di prima. La nascita di un figlio ne rivoluziona irreversibilmente le dinamiche e soprattutto le priorità.
Una psicoterapia può aiutare l’intero sistema famiglia, sia per quanto riguarda la gestione pratica ma soprattutto per ciò che concerne il significato più profondo dell’essere genitori.
Fare il “lutto” della gioventù perduta e abbracciare la maturità con le sue luci e le sue molteplici ombre si rivela per molti un aiuto fondamentale nella cura del malessere infantile.
Guardare la crisi del genitore, prenderla in carico ed elaborarne insieme la complessità è l’unica via per sbloccare la situazione di disagio del bambino.
Come sempre questo lavoro comporta, da parte di chi chiede aiuto allo psicoterapeuta, collaborazione attiva e risveglio di una passione verso la scoperta di sé.
La vitalità recuperata nell’adulto, il suo desiderio di farcela come essere responsabile, serio ma non “serioso”, sicuramente affaticato ma non sopraffatto, si dimostrano essere gli antidoti più potenti ai sentimenti di vuoto dei piccini, contaminati per questa via dalla fiducia e dalla forza ritrovata in chi è lì per guidarli nella vita.