Il desiderio di guarire
Sembra scontato, ma non lo è. Alla base di ogni guarigione che si possa dire tale esiste sempre un fortissimo desiderio di guarire, mai astratto ma concreto e reale.
Senza tale motore resta uno sterile trascinarsi, intriso di rifiuto nei confronti della propria condizione. È il non voler scendere a patti con il problema a svuotare di concretezza il desiderio di guarire, non rendendolo altro che un vagheggiamento frutto di diniego e volontà di potenza.
Sognare di guarire o voler guarire davvero?
Spesso si arriva a chiedere una psicoterapia (ma il discorso potrebbe valere anche per alcuni tipi di terapia medica) in preda all’irrealistico desiderio di poter cancellare il disagio. L’aiuto che viene chiesto in questi casi taglia fuori la possibilità di un proprio impegno e coinvolgimento nel processo di cura, rendendo di fatto la cura stessa impossibile.
Per tutti gli esseri umani non è facile affrontare la realtà, soprattutto quando essa è spiacevole. In tutti quanti, messi di fronte a un problema di una certa entità, scatta sulle prime un processo di negazione, di rivolta, di ribellione, di rifiuto.
La natura umana infatti, come quella di tutti gli esseri viventi, è portata a ricercare il piacere e a sfuggire il dispiacere. Grazie però a qualcosa che si chiama coscienza, noi uomini siamo in grado di riconoscere e integrare le situazioni spiacevoli, farcene una ragione e mettere la nostra naturale spinta verso il piacere al servizio dell’intelligenza pratica, nella tenace ricerca di strategie per superare o contenere il problema.
Sognare di guarire dunque non è la stessa cosa del voler guarire davvero. Sognare di guarire è l’indice del fermarsi al primo gradino del rifiuto del male, della fuga e del rifugio nella fantasia. La non volontà di confrontarsi con la durezza del reale si cristallizza nella cronicizzazione di un atteggiamento ostinato di superiorità, che condanna ad oscillare perennemente fra menefreghismo e caduta rovinosa nella frammentazione psichica.
Onnipotenza infantile e negazionismo
A ben vedere questo approccio è tipico del bambino ancora immerso nell’onnipotenza infantile, accecato dall’illusione della propria forza e sopraffatto dalle cadute che inevitabilmente gli restituiscono il senso della sua inermità e dipendenza dall’altro.
L’uscita dall’infantilismo psichico non è allora così scontata, e può permanere nelle varie età della vita, sia durante l’adolescenza che nelle età più avanzate.
Se un residuo di onnipotenza e negazionismo infantile è presente in ciascuno di noi, in genere in una personalità sufficientemente matura esso non prende il controllo sull’intero sistema, lasciando alla coscienza più evoluta l’esercizio della modestia e della pazienza.
Tale esercizio lo si vede nel tener conto delle cose spiacevoli, nel riconoscerne la potenza e il mistero pur non abbattendosi in una resa impotente.
Negazione della realtà e distruttività
Paradossalmente il predominio di atteggiamenti infantili di rifiuto della realtà avvicina alla morte più che alla vita. Chi soffre di una problematica psichica e riesce a tollerare il peso della diagnosi si mette già sulla via della guarigione, perché non punta a cancellare il disturbo ma ad imparare a conviverci e a poter essere soddisfatto di sé stesso nonostante le difficoltà.
L’aiuto che chiede ad uno specialista implica la possibilità che sia lui stesso a compiere degli sforzi, sia in termini di analisi ed ampliamento della conoscenza di se stesso che di messa in atto di comportamenti concreti fuori da serie ripetitive di cui riconosce via via l’aspetto patologico. Lo specialista supporta il percorso ma non si sostituisce a chi questo percorso lo deve compiere.
Chi al contrario nega la propria patologia coltivando l’illusione di liberarsene del tutto grazie al lavoro di qualcun altro (il terapeuta o simili) finisce per andare verso la morte, intesa come negatività e distruttività. La constatazione che nulla cambia e la demoralizzazione che ne consegue alimenta una spirale di frustrazione e di rabbia. Possono susseguirsi lamenti e agiti senza costrutto, in un’inconcludenza che cronicizza il male e che comunque mantiene sullo sfondo l’idea di un mondo ideale privo di sofferenze e fatiche.
Per questo il rifiuto del male provoca la sua cronicizzazione; l’attenzione ossessiva verso ciò che viene a mancare a causa del problema distoglie da ciò che ancora resta e si può fare per tirarsi piano piano fuori dal pantano. Il senso di impotenza finisce per dominare, portando a visioni spesso ciniche e distorte della realtà e delle relazioni. Il così detto “negativo” innesca dei godimenti “malsani”, impedendo dunque la possibilità dell’avvento di processi virtuosi di salvezza.
Quale terapia senza il desiderio di guarire?
Va da sé come sia impossibile portare avanti un qualsivoglia discorso terapeutico se ne vengono radicalmente a mancare i presupposti.
Ci si può limitare ad accompagnare, avendo cura di riconoscere e cogliere le occasioni là dove si presentano delle aperture, verificando con cautela le possibilità del paziente ed eventualmente proponendo blandi contraddittori.
Esistono percorsi che possono durare anche anni, in cui non vi è traccia di una vera, genuina volontà di mettersi davvero al lavoro.
Il terapeuta lo avverte nella forma di una specifica fatica a fine seduta, quella particolare stanchezza che deriva dall’aver “sopportato” anziché “supportato” il paziente, dall’essere stato soprattutto, durante la seduta, un bersaglio di proiezioni intento a sopravvivere.
Qui si pone tutta la delicata questione di come procedere quando la noia o la pressione sono di dimensioni considerevoli. Se al paziente è comunque di vitale utilità lo spazio della seduta, come terapeuti siamo chiamati ad esserci e a sopravvivere, sempre che i requisiti minimi vengano rispettati (puntualità, pagamenti, rispetto generale verso la persona ecc..).
Il lavoro terapeutico presuppone una collaborazione di cui si può constatare la mancanza o il venire meno; nessuno si salva da solo ma nessuno può altresì venir integralmente salvato dall’altro, pur pagando i suoi servigi.