Depressione: tre figure della melanconia
Nel testo "Il discorso melanconico" Marie Claude Lambotte espone una tesi originale che tenta di disgiungere la melanconia sia dalla psicosi maniaco depressiva (in cui tende ad essere ricondotta dalla psichiatria) che dal lutto (al quale viene accostata per lo più dalla psicoanalisi).
Negli stati melanconici appare qualcosa di irriducibile alla rottura con la realtà tipica delle psicosi: freudianamente, se nella psicosi c'è un conflitto fra Io e mondo esterno, nella melanconia prevale piuttosto un conflitto fra Io e Super Io. Si tratta della classe delle nevrosi così dette "narcisistiche", a sè stante rispetto alla bipartizione nevrosi-psicosi. D'altro canto la melanconia differisce pure dal semplice lutto: mentre la persona in lutto sa cosa ha perduto, il melanconico non lo sa.
L'ipotesi della Lambotte è che dunque esista una specificità della "struttura" melanconica, di cui si possa cioè cogliere una dinamica funzionale originale. L'espressione "nevrosi narcisistica" isolata da Freud è ritenuta quella più calzante, in quanto indica un rapporto con l'oggetto all'insegna del rifiuto, a sua volta dipendente da una ferita originaria nell'Io.
Tre sono le "figure"che costituiscono il cuore pulsante della melanconia in quanto struttura indipendente: il buco, la cornice vuota, il negativismo.
Il buco: l'inibizione generalizzata
L'inibizione è il processo difensivo che fa da padrone nei quadri melanconici. Essa reprime l'affetto legato alle rappresentazioni inconsce, ossia la loro tonalità affettiva, il loro colore. Così svuotato, l'inconscio che si manifesta nel discorso del melanconico si riduce a mera connessione logica, che lascia sullo sfondo la parola e il suo potere evocativo. In seduta il paziente tipicamente si focalizza più sulla cornice formale del discorso che sulla libera associazione, le sue storie assomigliano più alla descrizione di un meccanismo che alla composizione di un racconto.
Se dunque da un lato la vitalità, l'affettività si coartano, dall'altro si rafforzano le funzioni cognitive. L'eccitazione intellettuale finisce per invadere il campo di coscienza del malato, assumendo la forma di un intenso raziocinio ossessivo. L'impressione è quella di un "buco emorragico", uno svuotamento dell'Io, un vortice che determina un movimento elicoidale nella ripetizione indefinita di un pensiero, un movimento perpetuo del pensiero su se stesso.
Ciò che il melanconico non fa che ripetere indefinitamente sarebbe al fondo l'incomprensibilità della sua venuta al mondo. C'è in lui un fondamentale senso di essere caduto dal cielo, rovesciato nel mondo brutalmente, senza la possibilità di ricorrere a rappresentazioni colorate affettivamente che diano il senso di un legame, di un fondamento. Spesso il tutto si accompagna alla certezza assoluta di essere stato mancato in partenza, ferito oppure abbandonato.
La cornice vuota: la problematica speculare
La ben nota auto svalutazione dei soggetti melanconici svela uno sguardo materno al fondo "non guardante", puntato al di là di lui, oltre lui, che lo condanna ad un'eterna rincorsa di quel punto sfuggente e inarrivabile. Da questo essere trapassato da parte a parte da uno sguardo cieco che non riconosce e umanizza, deriva un senso di non essere niente, non valere niente. È il "fuori cornice", il fuori scena, il sentimento di vuoto, il rimanere al di qua dell'immagine bonificante, della buona forma autenticata dall'Altro.
L'Io ideale e l'ideale dell'Io risultano così gravemente segnati, mentre il Super Io si fa feroce e inflessibile (degno di nota è il fenomeno della mania, in cui l'attitudine critica del Super Io si attenua permettendo all'Io una vera e propria orgia di libertà).
Il modello ideale che si innalza di fronte al melanconico è così inaccessibile da risultare eternamente staccato da lui, massimamente alienante, in una continua rincorsa destinata allo scacco e alla frustrazione. Dato che non riceve il dono di essere amato malgrado la sua imperfezione, nessuna buona forma avvolge stabilmente la sua "nuda vita", lasciandolo identificato al niente, allo scarto senza valore. Il suo sentimento di insufficienza, scaturito delle eccessive esigenze degli ideali genitoriali, non lo abbandona mai e viene proposto agli altri, dai quali si tiene a debita distanza in quanto si sente sempre giudicato male.
Il negativismo
Il melanconico nell'espressione "io non sono niente" esprime dunque il suo essere identificato al niente, ad un'immagine lasciata in bianco. L'espressione è dunque paradossale, perché è l'affermazione di una proposizione negativa. Il dire "io non sono niente" significa infatti, pur nella forma negativa, ancora dire qualcosa, conservare un legame con il mondo esterno, mantenere un ancoraggio possibile.
Tale "negativismo" si profila allora, secondo Lambotte, come un "mezzo di difesa" nei confronti delle aggressioni rivolte verso se stessi, nonostante l'effetto di annientamento sul proprio mondo interno, paragonato al niente. Si tratterebbe di un fattore protettivo nei confronti dei passaggi all'atto suicidari: l'affermazione della nullità frena la distruttività, perché dà un nome, un posto, un'identità al soggetto, pur mortificante.
Tramite questa volontà inconscia di devitalizzare la realtà del proprio essere, il melanconico sfugge così al pericolo, quello sì mortifero, del riconoscimento da parte dell'Altro di un'identità necessariamente falsa. La distanza dagli investimenti nelle relazioni ha così il fine ultimo di proteggere dalla riattivazione del trauma originario del mancato riconoscimento.