La dipendenza relazionale
Una delle situazioni più complesse da affrontare in psicoterapia è la dipendenza da una relazione “impossibile”.
Una relazione può essere rubricata come “impossibile” quando sostanzialmente gli intenti dei due partner non coincidono, così che non si viene mai a creare un “noi” stabile per entrambi.
La dinamica della dipendenza
In genere infatti in questo tipo di rapporti chi sviluppa dipendenza non cessa di aspettarsi dall’altro una presenza totale, al netto dell’intermittenza con cui questi si concede.
In molti casi è proprio l’alternanza di momenti di forte intensità e di periodi di totale distacco a far precipitare nel gorgo della prigionia psicologica.
Non sempre i ruoli sono stabilmente definiti; chi dipende all’occorrenza si trasforma in colui che scappa (e viceversa chi prima scappava si ritrova ad inseguire, svelando la propria dipendenza dall’essere oggetto di desiderio per l’altro).
Ciò che manca in questi tipi di rapporti non è l’incontro, spesso molto vivace ed eccitante, ma il suo trasformarsi da “momento perfetto”, fuori dal tempo e dallo spazio, a “intimità concreta”, che include nel suo cerchio anche i limiti e le fragilità di entrambi.
La persona dipendente però non necessariamente desidera davvero tale intimità concreta; la vagheggia perché le viene negata, la insegue, la invoca, ma poi se il partner “evitante” si trasforma in partner davvero “presente” può a sua volta spegnersi e ritrarsi. Per far ripartire poi il gioco di nuovo da capo.
Come in ogni dipendenza anche in quella relazionale il possesso dell’oggetto non rende felici. L’alcolista una volta pieno d’alcol cade ubriaco, il cocainomane sballa, il bulimico vomita, il malato di shopping compulsivo dimentica cosa ha comprato.
Esiste un momento cioè in cui si crea una distanza “necessaria” dall’oggetto, che non si traduce però in un lasciare andare ma in una semplice pausa, propedeutica a una nuova ricerca e successiva intossicazione.
Nella dipendenza relazionale il partner non è quindi più una “persona”, bensì una “droga”. In questa equivalenza persona-droga (quindi persona-oggetto di consumo) é nascosta la chiave per comprendere la qualità del disagio della persona dipendente e conseguentemente la forma di una sua possibile risoluzione.
La dipendenza dall’oggetto materno
Il malessere della persona dipendente ha radici profonde e si situa nel rapporto con la madre intesa come oggetto di gratificazione totale.
Il dipendente non ha mai sviluppato una vera autonomia personale dalla madre, indipendenza che comporta una rinuncia all’aspirazione a un rapporto di perfetta simbiosi (con relativa accettazione di un grado di solitudine non colmabile da nessuno).
La separazione vera dalla madre comporta infatti lo sviluppo della capacità di auto cura, che svincola e libera le relazioni dal “dover” costituire dei luoghi di appoggio.
Nell’inconscio del dipendente invece la madre resta idealmente per tutta la vita una figura d’appoggio totale, capace di soddisfare tutti i suoi bisogni infantili (e se ciò non accade ella non fa che provocare la caduta nell’abisso dell’abbandono).
Aver avuto una madre troppo presente o al contrario eccessivamente distratta e frustrante può costituire l’humus su cui si innesta l’idea risarcitoria che nelle relazioni debba aver luogo un contenimento perfetto, in cui tutto è sempre e solo magnifico (una persona da cui ottenere illimitatamente soddisfazione e su cui riversare tutti i propri bisogni).
Ma nella realtà una persona che soddisfa totalmente non esiste, non è una persona umana! Persino le madri più equilibrate non possono essere continuamente al cento per cento in sintonia con le esigenze dei figli.
La maturazione psichica consiste nel prendere atto di questo fatto, che nessuno, nemmeno la cara mamma, può fornire un sostegno illimitato. Tale sostegno bisogna diventare in grado di fornircelo da soli.
Per non cadere nella trappola della dipendenza relazionale ci vuole quindi un momento in cui si realizza profondamente che gli altri non sono degli oggetti-contenitori dei nostri bisogni ma delle persone, che hanno pregi ma anche inevitabili manchevolezze.
Accettare la solitudine esistenziale, la mancanza di un riparo assoluto, non costituisce la scusa per chiudersi a riccio o per rifugiarsi in atteggiamenti cinici, bensì si rivela come il passo fondamentale per entrare davvero in relazioni mature con gli altri.
Il che non vuol dire rinunciare ad avere rapporti con persone calorose e generose, ma mettere in conto che in ogni rapporto, anche in quello più amorevole, incontreremo delle mancanze, dei limiti e delle noie.
Il legame profondo si basa su questo, non sull’adeguatezza perfetta, non sull’esaltazione dei bisogni fisici e psicologici ma su un filo invisibile di stima e di riconoscimento, che accoglie i pregi e i difetti dell’altra persona.
La dipendenza invece illude che esista la culla perfetta, la perfetta e reciproca soddisfazione. Così da far partire un inseguimento estenuante e senza fine della “sensazione” di compenetrazione reciproca, nell’impossibilità di stabilire un rapporto vero e concreto.
I momenti di contatto totalizzante con l’altro (nel sesso, nella coccola, nella condivisione del tempo libero ecc…) sono per loro natura transitori ed effimeri, si torna sempre alla separatezza, sempre.
Ma separatezza non vuol dire incomunicabilità, noia, delusione, lasciar cadere, abbandonare.
Stare insieme pur mantenendo una separazione non coincide con abbandonare l’altro a se stesso. Il legame esiste e sopravvive anche nell’assenza, perché non si misura su quanto tempo si passa incollati all’altro.
Per uscire dal baratro regressivo della dipendenza è quindi necessario accettare le regole della natura umana. Al netto della solitudine esistenziale il legame c’è comunque e ci permette di custodire in noi stessi, nella nostra interiorità il senso e il valore dell’altro, anche fuori dallo stato di grazia fusionale.
In psicoterapia si può dunque portare avanti un lavoro a questo livello: “perdonare” la madre imperfetta (perdonare non vuol dire dimenticare ma capire e accettare l’incompletezza del bene, la frustrazione e le manchevolezze altrui) e mettersi a lavoro per sviluppare una propria forza, una propria capacità di farsi compagnia e di darsi incentivi positivi.
Se l’altro sfugge, tratta male, è freddo non attacchiamoci, non insistiamo, lasciamolo andare… Noi siamo comunque in grado di stare in piedi da soli.
Ma se l’altro invece resta accogliamolo, nella sua imperfezione possiamo permettergli di restare. Sarà una presenza importante anche se non starà fisicamente tutto il tempo con noi. Lasciamolo respirare.
E poi cerchiamo di essere coscienti che quando costui passerà molte ore con noi sarà inevitabilmente a tratti “noioso” o poco adeguato a soddisfare tutte le nostre necessità.
Ma questo fatto semplice e banale, se saremo guariti dall’illusione della fusione totale, lo reputeremo finalmente come una caratteristica normale dei rapporti umani e non una spia rossa che segnala implacabilmente la necessità della fuga.
Rapporto uomo donna, Disagio contemporaneo