“Chattare” significa davvero “parlare” all’altro?
I giovanissimi oramai, quando non si vedono di persona, comunicano fra di loro solo ed esclusivamente tramite app di messaggistica istantanea o canali social (whatsapp, instagram ecc...).
Le telefonate fra amici o potenziali partner sono eventi rarissimi, da confinarsi nel territorio dei rapporti “familiari”, con i genitori o con i fidanzati di lunga data.
Questa abitudine ha contagiato anche fasce d’età più avanzata; non è raro che quarantenni e cinquantenni deleghino gran parte del “mantenimento” dei rapporti intimi e sociali alle chat, spesso di gruppo.
A prima vista la messaggistica istantanea pare del tutto innocua e priva di effetti collaterali. La sua praticità consiste nel connettere in maniera rapida e al tempo stesso discreta, i contenuti appaiono in “anteprima” e possono essere valutati in base alle priorità, alle urgenze, al mood del momento o semplicemente alla disponibilità di tempo per “chiacchierare”.
Inoltre grazie a questi mezzi si può vedere se il messaggio è stato letto e quando, pure in assenza di risposta, quindi teoricamente la certezza dell’avvenuto recapito avrebbe persino degli effetti tranquilizzanti.
E poi il problema della mancanza del tono di voce, elemento chiave ai fini della chiarezza comunicativa, è risolto grazie all’uso delle “emoticon”, faccine che riproducono le espressioni del volto con cui accompagnare il testo scritto. La possibilità dell’equivoco parrebbe così brillantemente eliminata.
Che cosa allora non va in questo modo di vivere la dimensione relazionale?
Problemi in effetti non esistono per nulla se le chat si limitano allo scambio di informazioni pratiche. Quando sconfinano nel territorio affettivo possono essere ancora innocue, se utilizzate con moderazione, come un’integrazione di un discorso gestito principalmente sul canale vis a vis.
L’abuso e la sostituzione dello scambio reale
Il problema risiede dunque nell’abuso del loro utilizzo, e soprattutto nell’integrale sostituzione della telefonata o dell’incontro di persona.
Perché mai? Che differenza intercorre fra scambiare delle parole e scrivere dei testi?
Innanzitutto la mancanza del “non verbale” non può mai essere liquidata senza costi. Le chat non possono ovviare davvero la mancanza della trasmissione emotiva tramite le “faccine”, perchè esse veicolano espressioni stereotipate, prive di sfumature e di identità vera.
Il sorriso della faccina gialla, benché simpatico, è davvero il tuo sorriso di questo momento, la tua bocca che ride ora, il timbro della tua risata in questa unica e particolare circostanza?
La sostituzione dell’emozione “incarnata” in un volto o in una voce impoverisce lo scambio, appiattendolo, privandolo di corpo, di tridimensionalità e soprattutto di identità vera. L’effetto è raggelante sul piano dell’emotività profonda, che viene tagliata via in favore di una “presentazione” di ciò che si prova più che di una sua “espressione”non intenzionale e autentica.
Non è nemmeno da sottovalutare il fatto che le faccine fornite dalla messaggistica siano carine, dolci, rotonde e colorate, perché ricordano il mondo dei “cartoon”, un mondo adatto all’immaturità emotiva del bambino.
L’utilizzo massiccio delle emoticon quindi oltre a livellare il linguaggio emotivo, privandolo di raffinatezza, autenticità e unicità, lo infantilizza pure.
L’emoticon sostituisce la “moina” che si fa al bambino, il cuoricino, il faccino tondo e intimidito simulano un mondo di “coccole” e dolci sentimenti del tutto inesistente nel reale.
La faccina può produrre effetti identificatori in chi la manda o in chi la riceve secondo modalità regressive, che rendono dipendenti dallo “zuccherino” elargito o ricevuto. Anche quando si sa che si tratta di una finzione.
La finzione infatti è un altro grosso problema di questo modo di comunicare; l’emozione “incarnata” nello sguardo o nella voce non mente facilmente, e può inoltre mutare sulla base dello scambio con l’altro. Una voce che inizialmente tradisce ansia e nervosismo può sciogliersi mentre si parla all’altro, per arrivare persino dopo un po’ a trasmettere calore.
Quale dinamismo vivo può esserci fra due amici o aspiranti innamorati che utilizzano falsamente delle faccine rotonde rispettando una specie di copione?
E qui si arriva a un altro punto davvero cruciale: chattando è chi scrive che definisce la propria emozione, non l’altro. Il bello della conversazione è la possibilità di leggere l’altro (e a nostra volta di essere letti) al di là di come ci si presenta.
Parlare con la nostra voce ci espone, perché gli altri vedono sempre in noi qualche cosa che noi non possiamo vedere di noi stessi. Fa paura questa esposizione, eppure si tratta di una legge umana.
Senza passare attraverso il vicolo stretto dello sguardo dell’altro su di noi, senza la sospensione più o meno angosciante di non sapere cosa siamo agli occhi dell’altro, non esiste nemmeno la possibilità gratificante di sentirsi davvero riconosciuti, visti, colti nella nostra unicità.
Se parlare significa sempre mostrarsi un po’ nudi (anche quando cerchiamo di non farlo finiamo inevitabilmente per tradire senza parole qualcosa di noi che non vorremmo svelare), esso vuol dire anche darsi una possibilità, quella di piacere così come si è, al di là di modelli e stereotipi.
Certo, esiste la possibilità del rifiuto, ma il rifiuto non è da demonizzare perché ci fa andare avanti in una ricerca di compatibilità vere e non artificiali.
Due che approfondiscono la conoscenza “chiacchierando” via chat cosa colgono davvero dell’altro?
Non finiscono per incontrare solo e unicamente l’immagine “fornita” , “presentata”, quindi l’immagine ideale anziché quella reale? Non incontrano alla fin fine chi vorrebbero vedere, in una dinamica proiettiva reciproca che fa mancare l’incontro con l’altro nella sua realtà?
C’è poi da notare un’altra ambiguità. Se scrivere ripara come uno scudo, al tempo stesso esso può far cadere nella trappola dell‘esibizione, quindi può far trasmettere molte più informazioni di quelle che si riferirebbero in presa diretta con la persona davanti o all’altro capo del telefono.
Ne deriva un’altra sfasatura importante: mentre ci si copre con le emoticon, ci si scopre raccontando fatti di sè molto intimi e personali, anzitempo rispetto ad una conoscenza che procede lungo i canali classici delle telefonate e degli incontri.
Ma anche quando ci si scopre infondo non si è così autentici: di nuovo ci si narra, ci si presenta, non si lascia all’altro la possibilità di scoprici con i suoi di occhi.
L’autoreferenzialità è quindi il cuore della messaggistica istantanea. Ed essa si intreccia alla fragilità narcisistica dei nostri tempi, in cui tutti quanti sono appesi alla necessità di presentarsi bene, scpngiurare i rifiuti e mantenere il controllo.
A ciò si aggiunge l’ossessione per il vedere che l’altro ha visto il tal contenuto, la spunta blu, l’ultimo accesso ecc… ecc… tutti aspetti che falsano e inquinano la conoscenza con il proliferare di congetture inutili.
I rapporti consolidati non sono infine immuni da problemi. Se si sta incollati tutto il giorno con i messaggini, le foto di dove si è, con chi si è ecc… come si fa a difendere il delicato spazio relazionale dall’ ingorgo di “real time”? Dove porta la simbiotica condivisione di tutto? Di cosa si parla se tutta l’esperienza è già stata condivisa sul mero piano dell’evidenza? Dove vanno a finire le emozioni interiori e il loro racconto?
Un augurio dunque che tutti, giovani e meno giovani, riescano a recuperare un rapporto più sano con la parola nella sua dimensione viva e dinamica.
Recuperare questo rapporto permette infatti di maturare e di fortificarsi, nonché di incontrare l’altro su un terreno di sostanza e non di fumogeni.