Ragione o emozione?
La ragione a rigore non si pone “contro” le emozioni. Si crede falsamente che la persona razionale diffidi di ogni manifestazione emotiva, propria o altrui, bloccandola sul nascere o incapsulandola in un angolo remoto del proprio essere.
In realtà la ragione, lungi dall’avere per sua natura un compito difensivo verso le emozioni, è piuttosto “al servizio” della componente emotiva.
Il significato di un’emozione
Il cervello emotivo (cervello limbico), ancestrale e primitivo, in situazioni di emergenza o in determinate circostanze relazionali è in grado di attivare in noi risposte immediate, forti, sulle prime non filtrate dall’attività della corteccia cerebrale.
Il compito del nostro cervello più evoluto però non è quello di “inibire” il vissuto emotivo o di “bloccare” la reazione, bensì di interrogarne il significato, in modo da modulare la condotta susseguente in maniera congrua e soddisfacente.
La razionalità dunque può smascherare il fondo illusorio di un’emozione o al contrario contribuire a coglierne il vero carattere epifanico, di rivelazione esistenziale.
Le emozioni infatti possono essere delle passeggere bolle di sapone, frivolezze povere di spessore da lasciar svolazzare e poi svanire, così come costituire dei veri e propri “segnali” di profondità abissali.
Tramite il lume della ragione siamo in grado di orientarci nella nebulosa emotiva, schiarendola grazie all’assegnazione di un senso preciso.
Il fine del lavoro di decodifica non è la semplice liquidazione della montata emotiva, ma la sua comprensione piena; spesso il messaggio veicolato dalle emozioni utilizza proprio un linguaggio “esplosivo” per far sì che la mente razionale finalmente ascolti, impari ed evolva al di là dei suoi limiti (che consistono in convinzioni errate apprese passivamente dal contesto familiare/sociale).
Quando le emozioni sono sistematicamente guardate con sospetto, giudicate inopportune oppure al contrario lasciate sfogare a briglie sciolte dentro dei circhi sganciati dalla vita vera (molti luoghi del così detto divertimento sono ormai diventati dei meri sfogatoi pulsionali) il loro potenziale trasformativo viene totalmente eluso.
Ma la responsabile di tale amputazione non è la ragione, bensì quell’abitudine miserevole (ahimè diffusa) al controllo e al calcolo spicciolo, vera condanna dell’uomo moderno e del suo ormai atteggiamento pavido di oppurtunismo.
Oggi solo in apparenza celebriamo l’importanza dell’emozione: tutti vogliono vivere emozioni forti, ma il risultato è più che altro uno sfogo, una scarica di dopamina, una rincorsa fine a se stessa di un’ebbrezza passeggera che non porta da nessuna parte.
Il lato effimero dell’emozione, illusorio e un po’ puerile, povero di solide risonanze interiori, oggi va per la maggiore, perché è facilmente definibile, gestibile, persino simulabile e liquidabile da parte della mente calcolatrice.
Le emozioni profonde, vere, che si allacciano al senso della propria esistenza umana vengono così rifuggite come la peste, perché sono quelle che, una volta accolte, mettono impietosamente di fronte alle proprie mancanze, in ultima analisi mettono di fronte a chi si è veramente, al di là di chi si crede di essere (o si vorrebbe essere sulla base dei modelli propinati dalla società)
L’emozione ”rivoluzionaria”
Gli individui capaci di pensarsi davvero, di riconoscere cosa “sentono” veramente (al di là dei riferimenti ai guru e alla loro retorica di massa, dell’imperativo del divertimento e della corsa verso le varie mete conformistiche), sono rari e “pericolosi” per un sistema sociale come il nostro, basato sul livellamento di abitudini, gusti e convinzioni.
Capire cosa si sente nel profondo è l’anticamera del capire cosa si vuole, e ciò che si vuole con tutta l’anima non è mai consono con i diktat sociali (sii alla moda, fai carriera, asfalta il tuo prossimo, sposati, fai figli, fatti l’amante per fare sesso, vai al cinema, vai in pensione e infine muori nella tua fortezza agiata).
Chi impara a decodificare le sue vere emozioni diventa perciò un rivoluzionario! Che per giunta deve anche affrontare la solitudine del distacco dal branco! Ma chi glielo fa fare, non è più comodo vivere a un livello di coscienza pari a quello di un topo ammaestrato?
Ecco che allora l’uomo comune, l’uomo medio, quando finalmente incontra delle emozioni “reali” nella sua vita di tutti i giorni (ben diverse da quelle scaricate nell’arena selvaggia dei divertimenti o nella pochezza elementare dei cattivi o dei buoni sentimenti), si affretta a tentare di imbavagliarle, tutto impaurito dalla potenza esplosiva della sua rabbia, della sua tristezza, del suo risvegliato ardore, della sua vitalità repressa magari richiamata improvvisamente e inopportunamente alla vita.
“Non posso lasciare questo lavoro, non posso cambiare, non posso amare chi mi pare, e poi se mi pento e se, e se….” è il refrain delle anime lacerate che ascoltiamo in seduta, anime che stanno disperatamente tentando di dribblare l’incontro con se stesse in nome di cosa “conviene” fare.
Si finisce per convincersi che le cose tanto vanno così per tutti, che bisogna avere la “testa sulle spalle”. Confondendo la razionalità e l’assennatezza con la paura, l’utilitarismo e il timore della riprovazione sociale.
La psicoterapia chiaramente in questo scenario opera in direzione sovversiva, perché invita a pensare e a prendere sul serio, quando c’è, lo stravolgimento emozionale interiore.
La psicoterapia si fa con i mezzi della ragione per conoscersi a fondo, non per continuare a dormire anestetizzati fra le coperte stritolanti che la società ha fabbricato per noi.
E conoscersi equivale a non smettere mai di cercare la propria misura personale di felicità, il proprio delicato accordo emozionale interiore, smettendo di rincorrere sogni desolantemente tutti uguali.