L’ossessività e i suoi confini con il delirare
Cosa intendiamo per ossessività? In cosa si distingue da un delirio? È sempre valida la loro rigida separazione? Che senso e che scopo ha una diagnosi nell’orizzonte della cura?
Il principale carattere di un vissuto ossessivo è quello di “non dirigibilità”: l’ossessione si definisce come un pensiero prevalente che si impone alla nostra attenzione al di là della volontà dell’io. Nel flusso di coscienza cioè affiorano delle idee assurde ed irrazionali, che vengono riconosciute come tali dal soggetto che le sperimenta.
La resistenza opposta a tali idee da parte della “parte sana” della personalità, che le identifica come estranee e morbose, viene tradizionalmente considerata dalla psichiatria classica come l’elemento cruciale che distingue l’ossessione dal fenomeno delirante.
Il malato coatto è cosciente dell’insensatezza dei significati che lo colpiscono, mentre per il delirante il significato dei fenomeni appare tutt’uno con la realtà. Se i pazienti ossessivi colgono l’insensatezza e l’erroneità delle loro idee e vi lottano contro, i deliranti fanno corpo con esse, non le distinguono cioè dalla realtà fattuale.
L’approccio fenomenologico: transizioni fra ossessività e delirio
Non tutta la psichiatria istituzionale però si è mostrata unanime nel sottoscrivere la tesi di una così netta contrapposizione fra idea ossessiva e idea delirante. Già Janet agli inizi del secolo scorso si dichiarava stupito del fatto che le idee di persecuzione fossero poste così distanti da quelle ossessive. Sulla stessa linea uno psichiatra del calibro di Kretschmer parlava di fluttuazioni osservabili nella clinica fra un’autentica rappresentazione ossessiva ed una (altrettanto autentica) delirante.
Un’idea ossessiva può dunque sfociare in un delirio. Inoltre il criterio della capacità critica rispetto all’idea intrusiva non è così solido per la diagnosi differenziale, nella misura in cui la correzione di un’idea ossessiva non sempre è immediata e completa da parte di chi ne è aggredito. Analogamente, lo stesso paranoico in un secondo momento può mettere in discussione le sue idee di riferimento.
La assoluta certezza ed incorregibilità del delirio, la completa inaccessibilità a obiezioni critiche sono caratteristiche del delirio (per lo più schizofrenico) ma non sussistono sempre e in ogni stadio della malattia. Il delirio può infatti oscillare fra critica, certezza relativa e certezza assoluta.
Nonostante tale messa in discussione di una netta separazione fra le due condizioni psicopatologiche (in seno alla stessa psichiatria), la maggior parte dei nosografi e degli psicopatologi dell’epoca classica ribadisce la presenza di un netto piano di clivaggio fra ossessione e delirio rappresentato dalla distonicità, ovvero dalla percezione dell’irrealtà e astrusità dell’idea parassita.
Su questo punto la psichiatria fenomenologica dissente, così come è fautrice del riconoscimento di una serie di fenomeni intermedi e dei passaggi fra ossessioni e delirio. Se la netta contrapposizione ha un’utilità sul piano descrittivo perché permette di stabilire delle regole, bisogna riconoscere che nella realtà i confini fra i fenomeni sono permeabili. Di fatto fra loro avvengono dei passaggi, delle trasformazioni e delle combinazioni.
Ad esempio, se descrittivamente le allucinazioni uditive sono da distinguere nettamente dai pensieri ossessivi (a rigore non sonorizzati) l’esperienza clinica mostra però tutta una varietà di fenomeni intermedi, che non hanno il carattere franco dell’allucinazione ma comportano una sonorizzazione del pensiero. Si tratta delle note pseudoallucinazioni degli ossessivi, che hanno la forma di pensieri sonorizzati, difficilmente distinguibili dai sintomi schizofrenici di primo rango. Esse possono pertanto essere viste come delle brecce, dei punti di transizione fra la cittadella ossessiva e quella delirante.
La relativizzazione delle etichette diagnostiche
Che considerazioni più ampie si possono fare alla luce dell’esistenza di fenomeni psicopatologici così detti intermedi? Cogliere lo scarto fra ciò che osserviamo nella realtà della clinica e ciò che ci aspetteremmo basandoci sulle categorie diagnostiche a nostra disposizione é di assoluta importanza per un clinico che intenda davvero cogliere la specificità del suo paziente.
Il rischio insito nella credenza cieca nella realtà delle categorie è l’errore diagnostico, perché accade che prenda il sopravvento ciò che vogliamo trovare su ciò che abbiamo davanti agli occhi. La complessità dei fenomeni che abbiamo di fronte e il loro “non tornare” rispetto alle descrizioni “da manuale” non andrebbe mai ridotta al silenzio e forzata entro una scelta categoriale netta, pena lo scacco della cura.
Scambiare un ossessivo per un paranoico (o uno schizofrenico) e viceversa ha delle ricadute enormi nella conduzione del trattamento e dunque nelle possibilità di recupero del soggetto. L’attenzione ai fenomeni di confine, agli ibridi, alle contaminazioni, a tutto ciò che non rientra pienamente nella definizione più probabile, è di fondamentale importanza per non precipitare conclusioni e affrettare diagnosi.
Essere coscienti che la realtà non ha una corrispondenza diretta con le leggi individuate dalla ragione mantiene il clinico aperto alla dimensione del divenire, dell’incertezza, del non ancora saputo. Così attendere, non chiudere, aspettare che certi fenomeni poco chiari si dispieghino ed evolvano può condurre a qualche frammento di verità che sulle prime sfuggiva. E che si basa non sulla semplice operazione di segmentazione del reale, ma su un ragionamento rispetto alle logiche sottostanti.
Potremmo così scoprire che il nostro paziente non è nè un ossessivo nè un paranoico o uno schizofrenico così come sono descritti nei trattati di psichiatria classica. Una nevrosi ossessiva apparente potrebbe svelare una modalità di funzionamento psicotica, che tuttavia non rientra in purezza in nessuna delle classi a nostra disposizione. Potremmo allora parlare di atmosfera, di area di confine, di modalità di funzionamento senza per questo non aver colto ciò di cui la persona che abbiamo in cura ha bisogno.
L’obiettivo di un clinico non è quello di catalogare le persone come un entomologo fa con gli insetti. L’orizzonte entro cui si muove è quello della comprensione e della cura, la diagnosi gli serve solo per quello. E allora più essa sarà sospesa, più al fondo sarà accurata. Non perché troverà la giusta etichetta, ma perché individuerà una tinta unica nel suo genere, una sfumatura frutto di una miscela particolare di colori.
Idee fisse, Aiuto psicoterapeutico