Sul farmaco nella cura

Quando il dolore è troppo
Esistono situazioni, non necessariamente le più gravi, in cui il terapeuta può proporre una cura farmacologica come integrazione al trattamento psicoterapeutico.
Di solito ciò accade quando il dolore psichico è talmente intenso da diventare quasi insopportabile. Ma la soglia di sopportabilità è soggettiva, non dipende dalla gravità "oggettiva" del disturbo.
Calmare la burrasca: il ruolo del farmaco
Il farmaco può così calmare un moto ondoso trasformatosi in burrasca. In questi casi il farmaco può fungere da regolatore emotivo, placando un tumulto interiore che impedisce ogni possibilità di parola, pensiero, relazione.
Come chi si trova in una burrasca la persona può iniziare a navigare di nuovo: la mente torna a produrre pensieri, a verbalizzare, e la parola terapeutica può finalmente lavorare.
Ce la devo fare da solo: la resistenza narcisistica
Non di rado però il terapeuta si scontra con un rifiuto netto del farmaco.
Frasi come "ce la devo fare da solo" riflettono un'attitudine difensiva: l'affermazione di un'indipendenza assoluta, che esclude l'aiuto dell'altro.
Questo rifiuto non è un atto di forza, ma spesso l'effetto della stessa struttura patologica che alimenta la sofferenza: l'identificazione con un ideale di perfezione, autosufficienza e forza senza cedimenti.
La castrazione e la ferita dell'ideale
Il dolore psichico si acutizza proprio quando questo ideale entra in crisi: un fallimento, una perdita una malattia…
Vengono meno i sostegni narcisistici, si apre un vuoto. Il soggetto si confronta con la propria fragilità e con il bisogno dell'altro, due realtà difficili da accettare quando l'ideale domina la scena.
La falsa partenza: "fammi tornare come prima"
Anche la domanda rivolta allo psicoterapeuta, talvolta nasce da un equivoco: "aggiustami tu fammi tornare come prima".
È una falsa partenza, perché tenta di evitare l'incontro con la propria ferita psichica.
Ma la psicoterapia, specialmente se ad orientamento analitico, non è una scorciatoia: è un percorso lungo, faticoso, in cui è il soggetto stesso a dover fare il lavoro.il terapeuta è presente, partecipa ma non si sostituisce al paziente.
Il farmaco come specchio del transfert
Il rifiuto del farmaco, quando la sua introduzione è clinicamente fondata, può segnalare una resistenza più profonda: non solo alla cura farmacologica, ma anche al processo terapeutico stesso. Il diniego della propria fragilità, che si esprime nel rifiuto del farmaco, si riflette nel legame col terapeuta: un legame che il paziente vuole tenere sotto controllo.
Trasformare la domanda
Cosa fare in questi casi? Un'insistenza forzata sull'assunzione di farmaci rischia di rafforzare la resistenza. Nella fase preliminare della terapia, è più utile lavorare sul senso della domanda: aiutare il paziente ad abbandonare l'aspettative salvifiche e a riconoscere la propria responsabilità sia nella sofferenza sia nel percorso di cura.
La solitudine del cammino terapeutico
Più il terapeuta si fa "salvatore" più la cura parte da un'apparente motivazione. Il terapeuta deve essere presente, attivo, partecipe, soprattutto nei casi di depressione, ma anche capace di rimandare al soggetto la responsabilità del suo cammino. Un cammino in cui si incontra se stessi, la propria divisione, senza scorciatoie e senza inganni.