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La sterilità del lamento

Uno dei nemici più difficili da combattere all’interno di una psicoterapia è il lamento. Quello sterile, quello reiterato, quello fine a se stesso. Per alcuni soggetti lamentarsi sembra l’unica forma di espressione possibile, l’unica modalità di abitare un discorso. Prendere parola si trasforma automaticamente in fare l’elenco di ciò che non va, non é andato nè mai andrà. In una circolarità che non lascia spazio a nient’altro che non sia dell’ordine del vittimismo.

Il valore dell’autocritica

Va da sé come in queste situazioni le potenzialità della terapia vengano annientate, parallelamente alle possibilità di manovra del terapeuta. Un trattamento che si avvale dell’uso della parola infatti ha un senso se chi parla, oltre a lamentarsi di ciò che tiene in scacco la propria vita, mostra una qualche minima disponibilità all’autocritica. Autocritica da intendersi non come mortificazione di sé ma al contrario come apertura a cercare di mettere a fuoco i propri atteggiamenti che concorrono a fissare il problema di cui si soffre.

Quando qualcosa non va è difficile che siano in gioco solo circostanze esterne. Anche le situazioni più complesse diventano insormontabili per via del nostro modo di approcciarci ad esse. La psicoterapia, non avendo il portiere magico di eliminare le sfortune del reale, può unicamente incidere sulle condotte individuali. Ma perché ciò accada bisogna che chi chiede aiuto colga la propria implicazione personale nel problema. Molli cioè il compiacimento di sentirsi sfortunato e cominci a guardarsi da fuori. Con il supporto del terapeuta potrà scoprire lati di sé a cui non pensava, aspetti della questione a cui non dava peso, appassionandosi al percorso di scoperta e di accrescimento interiore.

La trappola della passività

Un passaggio simile tuttavia non è per tutti e non in tutti i momenti della vita. Ci sono persone che assolutamente non riescono a “vedersi”, continuando a chiedere al terapeuta di farlo al posto loro, domandando consigli, opinioni, appigli.

Se in una certa misura una richiesta di aiuto simile non può restare del tutto inevasa (nel momento in cui le circostanze di vita esterne del paziente sono davvero complicate e le risorse mentali particolarmente assottigliate) l’impasse si presenta quando l’attesa che il lavoro lo faccia il terapeuta diventa una costante, senza intervalli, senza sprazzi di luce, senza intermittenza di apertura e chiusura.

La passività connota a senso unico le sedute, che non si svincolano in nessun modo dall’aspettativa che sia l’altro a compiere qualche magia. Nessuna manovra da parte dell’analista sembra funzionare, a nulla valgono i silenzi strategici, le domande significative, le restituzioni calibrate, le chiusure anticipate del discorso, certi atti carichi di senso. Nulla, tutti i tentativi più o meno espliciti cadono nel vuoto.

E più l’analista si dà da fare, più il paziente si chiude a riccio nel suo cantuccio di vittimismo. Una frase frequente che questi si sente ripetere è: “dottore, io queste cose le so, ma cosa ci posso fare, se sapessi aiutarmi da solo non sarei mica venuto da lei”. Affermazione che uccide ogni potenzialità di elaborazione mentale e che inchioda in un’ iper concretezza da cui diventa impossibile uscire. Le sedute o vengono interrotte o si prolungano a tempo indeterminato con l’analista che lavora trascinandosi il peso morto del paziente, ormai più legato alla sua persona che al lavoro simbolico che dovrebbe essere sotteso ai loro incontri.

Esemplificazione clinica

Un esempio ci fa capire la differenza fra due situazioni che partono da premesse simili ma che si sviluppano secondo modalità differenti. Da una parte vediamo in atto il valore dell’autocritica, dall’altra la trappola della passività.

Abbiamo Rossella, sui trent’anni e Romina, anch’essa sulla trentina. Entrambe di buona famiglia, buone e brave ragazze compiacenti nei confronti di aspettative stringenti da parte di genitori che di fatto decidono tutto per loro, dagli studi, ai vestiti, alla casa ecc...

Sulla scorta dell’angoscia chiedono aiuto, raccontando la loro storia che le vede vittime di genitori invasivi e pressanti, tutto naturalmente fatto per il loro bene. Il lamento per ciò che hanno subito la fa da padrone durante i primi incontri, così come la richiesta di un confronto, dettato dallo smarrimento totale in cui si trovano. Tuttavia la loro evoluzione in terapia è molto differente.

Rossella ad un certo punto comincia a problematizzare i suoi atteggiamenti. Riconosce cioè la sua passività, il suo dire sempre di sì sacrificando i suoi desideri e aspirazioni e inizia a mettere risolutamente dei paletti. Il tutto non senza costi: rinunciare alla posizione oblativa la getta in mare aperto, le sottrae quella protezione che tanto le stava stretta ma che la rassicurava al tempo stesso. In una parola Rossella cresce, fa i conti con i torti subiti e si rimbocca le maniche per dare una direzione alla sua vita a partire da ciò che è e non da quello che avrebbe dovuto essere.

Diverso il discorso per Romina, che dopo una prima fase di lamento “catartico”, non ha più niente da dire. Romina non riesce a proseguire nel discorso, così come non ce la fa a vivere la sua vita. Schiacciata dai soprusi della madre- amica ma anche dalla comodità di avere qualcuno che decide per lei non è in grado di attingere ad alcuna risorsa interiore per togliersi dalle sabbie mobili in cui sta affondando. Non vede perché debba rinunciare a tanti confort che i genitori benestanti le offrono in nome della libertà. E ciò decreta il suo restare invischiata nella rivendicazione astiosa e nel malumore perenne, che si scarica anche in terapia. “Cosa posso fare”, chiede ripetitivamente all’altro, mostrando di non volerne sapere nulla della castrazione.

Se Rossella, attraversando le difficoltà classiche di un percorso psicoterapeutico, giunge ad una svolta, vediamo Romina chiusa nel blocco del vittimismo. Riuscirà ad uscirne? Quanto questo perdurare della vittima dipende soltanto da lei? Quanto dal terapeuta? Quanto dal loro incontro? Domande aperte, che svelano il mistero e la complessità del volere umano.

Aiuto psicoterapeutico