Sopravvivere al Natale
L’avvicinarsi del Natale, con tutta la correlata retorica dei buoni sentimenti e del supposto “calore” familiare, suscita reazioni per lo più compatibili con la modalità che ciascuno usualmente e spesso inconsciamente ha di rapportarsi all’altro.
Il Natale, con sue le attese, illusioni e disillusioni è in grado cioè di evocare e di far saltar fuori nitidamente allo scoperto fantasmi individuali apparentemente sopiti e superati, nascosti o semplicemente tenuti a bada.
Questo perché si tratta di una festa (tralasciando del tutto la sua valenza religiosa) che più o meno forzatamente mette in contatto non solo con la famiglia attuale, ma soprattutto con quella dell’infanzia, periodo nel quale si è strutturata l’affettività profonda, coperta poi con la crescita da uno strato di modificazioni, di identificazioni e ristrutturazioni di solidità variabile.
C’è dunque qualcosa di regressivo nel Natale, qualcosa che inaspettatamente riporta indietro nel tempo e disvela in un lampo nel presente il tratto distintivo della nostra interiorità più nascosta.
L’adesione cieca
Chi ama il periodo natalizio senza apparenti conflitti o struggimenti, aderendo completamente all’atmosfera presentata dal sociale, non ha necessariamente vissuto un’infanzia felice tout court, piena d’amore e di presenze. Può essere che questa situazione si sia verificata, così come potrebbe essere accaduto esattamente il contrario. Molti amanti del Natale lo sono proprio nel tentativo di allontanarsi da vissuti spiacevoli, cercando di colmare nell’oggi un vuoto non facilmente confessabile relativo agli anni della fanciullezza.
Resta il fatto che l’amore cieco per il Natale senza alcun tipo di distacco critico testimonia di un attaccamento molto forte al ruolo di figlio o di figlia, dunque alla famiglia di origine, nonostante magari l’esistenza di un proprio nucleo famigliare, di mogli, mariti e di figli propri. Qualcosa dell’ordine della separazione è rimasto come sospeso. La vittoria della tradizione e l’intenso senso di appagamento correlato svelano la persistenza del bisogno infantile di “appartenenza” alla famiglia, la nostalgia del grembo materno, l’idealizzazione del legame parentale come bene assoluto.
Non a caso è proprio chi più si compiace delle feste, chi si identifica pienamente al mood natalizio a percepire il contraccolpo dell’Epifania, che appunto “tutte le feste porta via”. Il sette di gennaio sancisce il ritorno brusco alla grigia realtà, l’espulsione dal nido caldo. Esso ripropone il disagio non pienamente assunto nel suo potenziale di ricchezza dell’andare per il mondo in solitudine, soli e senza riparo.
Magicamente le frustrazioni messe sotto il tappeto durante le feste ricompaiono, trascinandosi in borbottii che comunque non esitano in consapevolezze profonde.
Le personalità di questo tipo hanno in comune un elemento conformistico, faticano cioè a tirare fuori coraggiosamente il loro tratto distintivo (necessariamente di rottura verso l’ordine stabilito) per rifugiarsi nell’altro, di cui spesso e volentieri restano inconsciamente schiavi. Oblatività, indecisione e una carica aggressiva repressa proprio verso questo altro identificato con il massimo bene, con il nutrimento infinito sono tratti tipici. L’ambivalenza viene faticosamente trattata, difficile è mettere in discussione la così detta “relazione fondamentale” in una modalità che non sia il lamento fine a se stesso.
La ribellione
E chi odia ferocemente il Natale? Stesso discorso per chi lo ama senza riserve. Quando l’amore e l’odio si polarizzano e non si compongono qualcosa resta incollato all’oggetto di tali passioni senza possibilità di liberazione. Il rancore di chi odia le feste è imparentato con l’adorazione senza riserve. La dinamica è leggermente diversa ma ciò che resta in comune è l’attesa di una comunione perfetta con l’altro, che in un caso illusoriamente si verifica e nell’altro rovinosamente viene messa in discussione.
Il contrariato o va volentieri alle riunioni familiari, ricco di attese che vengono puntualmente scontentate, o ci si reca proprio controvoglia, patendole ma nel fondo continuando a desiderare di poter lanciarsi senza paracadute nei buoni sentimenti.
La sua esteriore “ribellione” cela la delusione di non potersi congiungere all’altro, l’insoddisfazione di dover constatare ogni volta che il legame non è come lo vorrebbe. Dai parenti lui non si sente amato, capito, apprezzato. Ci prova, o pensa di averlo fatto, ma loro niente, a suo dire non lo vedono. Gli anni passano, lui è ormai cambiato ma c’è poco da fare, resta il bambino di una volta.
Qui l’atteggiamento utopico la fa da padrone, con tutta la scia depressiva che accompagna il periodo festivo e il recupero in termini di carica e di spinta vitale con la ripresa di gennaio. Terminato il calvario delle feste ecco il rilancio nella vita vera, nelle passioni e nelle avventure.
L’approccio equilibrato
C’è poi chi il Natale lo vive con una moderata indifferenza venata di piacere. Forse questa è la categoria più equilibrata, meno “nevrotica”, più “adulta” potremmo dire. Il piacere di rivedere i parenti si unisce alla consapevolezza della distanza non colmabile, delle diversità, degli egoismi passati e presenti, in una parola dei limiti dei rapporti.
Il bene non viene disgiunto dall’odio ma sopravvive ad esso proprio in virtù del riconoscimento di quest’ultimo. Un bene che non scivola nell’identificazione conformistica ma nemmeno nella rivendicazione senza fine. Un bene che si può conservare a partire dalla ferma consapevolezza di chi si è, dalla ricchezza pur imperfetta della propria vita al di là di quella della “famiglia”, delle sue visioni e delle sue attese.
Allora il Natale potrà colorarsi di quella nostalgia infantile che resta negli animi di tutti, senza trasformarsi in una grottesca pantomima di buoni sentimenti o al contrario in una arena di amarezze e conflitti.
Rapporto genitori figli, Disagio contemporaneo, Solitudine