La sospensione del giudizio
I terapeuti lo sanno bene, capire non è giudicare. Eppure il giudizio, così fuorviante, così limitante è duro a morire anche nelle menti più illuminate. Rassicura, fa stare comodi nel proprio cantuccio di convinzioni.
Pure i così detti intellettuali, capaci di riconoscere l’interferenza del giudizio nelle loro analisi e dunque di metterlo fra parentesi, quando le questioni si ingarbugliano o sono troppo vicine su un piano personale ricorrono inconsciamente al represso giudizio, proferendo più o meno ad alta voce le classiche parole tipo “l’avevo detto, l’avevo sempre pensato ecc…”
Il giudizio che acceca
Che cosa è dunque il giudizio nella sua essenza più profonda? E in cosa differisce dall’intuizione, con la quale apparentemente condivide l’aspetto “predittivo”?
Si potrebbe definire il giudizio come il frutto dell’attività di schemi mentali finalizzati a categorizzare grossolanamente la realtà, solitamente in termini dicotomici (bello/brutto, buono/cattivo, giusto/sbagliato ecc…). Lo scopo sarebbe adattivo, ovvero quello di permettere l’inquadramento rapido di una persona o di una situazione in funzione dei propri bisogni, basandosi soprattutto sul senso dominante della vista.
Forse residuo dell’evoluzione da esseri meno pensanti, questa modalità di scansione del reale si svela non solo condizionante, ma spesso totalmente fuorviante e controproducente. Ma, proprio perché atavica, è difficile da eradicare, anche nelle persone “acculturate”.
Il giudizio dunque, anziché orientare, abbaglia. L’eccesso di evidenza, come quello di luce, acceca la vista. Non tutti giudicano alla stessa maniera. Se il processo è il medesimo per tutti, la qualità dei giudizi “corollario” cambia a seconda dell’esposizione ambientale e delle esperienze personali.
Esempi di distorsione
In ogni caso la visione di un uomo “gobbo e con gli occhiali” più o meno a tutti gli esseri umani attiva la categoria “brutto”; i più evoluti poi possono raffinare il giudizio azzardando “intellettuale”, sempre comunque sotto l’influsso del condizionamento di stereotipi.
Magari il “gobbo con gli occhiali” in realtà non è né un brutto né un intellettuale. Potrebbe tranquillamente rivelarsi cintura nera di karatè con dei muscoli d’acciaio ed esser gobbo per via di una una gran botta presa alla schiena, portare gli occhiali per insofferenza alle lenti a contatto.
Un esempio contrario. “Bella donna sorridente” a tutti evoca inequivocabilmente giudizi positivi. È bella, sorride, dunque è “bella e buona”. Magari si è rifatta il viso e il sorriso è solo il frutto di una paresi.
Ma il brutto che poi si rivela un bello, o la bella che poi si scopre brutta non ci fanno uscire dal cerchio del giudizio. Perché considerare qualcuno bello già predispone a catalogarlo come buono e bravo e viceversa il brutto è anche cattivo. Dunque anche accedere alla realtà che si nasconde dietro quella immediatamente visibile non ci garantisce dall’errore e ci fa rifinire nel guano delle dicotomie.
L’uomo delle arti marziali potrebbe essere un serial killer o un volontario nelle case di riposo. La donna rifatta una folle maniacale o una fine musicista. E ciascuno di loro potrebbe essere simultaneamente sia killer che soccorritore, sia pazzo che artista.
Si potrebbe obiettare che però, una volta che appuro che l’uomo coi muscoli non è un killer ma una persona caritatevole il discorso si chiude. È un buono e non ci piove. La prova empirica, tangibile della sua bontà non ammette contraddittori.
Ma cosa ne sappiamo del perché fa volontariato? Magari lo fa per espiare l’odio più o meno conscio verso le vecchiette. Ciò lo renderebbe ancora così “buono”? Ci si potrebbe fidare ad occhi chiusi di uno che odia le vecchiette? Magari sì, più di molti “cristiani”. Ma allora cos’è la bontà, non rischia di rivelarsi solo una parola convenzionale che non aggancia il reale?
Cosa resta?
Se la vista inganna, la realtà della prova tangibile di ciò che sfugge all’apparenza pure, allora cosa resta?
Resta l’al di là della complessità umana, imprendibile dai nostri schemi limitati. Il solo interesse a capire può sostenerci nella lotta contro i pregiudizi e le facili generalizzazioni, con la coscienza che “buono e bravo” e “brutto e cattivo” sono solo ideali della nostra mente, a caccia di sicurezza, rinforzo egoico e felicità senza sbavature.
La maggior parte delle persone preferisce non scavare troppo a fondo, il sonno delle certezze granitiche è più gratificante ed evita tormenti e smarrimenti. Perché è chiaro che, spingersi così oltre, porta inevitabilmente a incontrare la parte in ombra di sé stessi. E a fare quel salto che è l’accettazione dell’irregolarità e dell’imperfezione, che così mal tolleriamo nell’altro e nella vita stessa. Ma da cui proviene poi una nuova ricchezza.
Diverso il discorso riguardo l’intuizione. Essa si discosta dal giudizio perché non chiude, si limita a suggerire una pista, un modo diverso di “vedere”, più sganciato dai fatti e più vicino all’immaginazione. Immaginare ci innalza dalla nostra gretta umanità. Si distingue dal delirio perché non ha la pretesa di spiegare nulla, non è dell’ordine della rivelazione ma del possibile.
I terapeuti, insieme ai loro pazienti, di fatto si impegnano in un’attività immaginativa. Molta parte della cura sta qui, nell’ascolto da parte di entrambi dell’al di là della parola, nel rispetto e nell’umiltà del non sapere ma soprattutto nella gratitudine di poter afferrare qualche sottile granello di verità.