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Come affrontare una separazione?

Le separazioni consensuali o senza strappi improvvisi non sono trattate frequentemente in psicoterapia.

Rarissime sono le esperienze riportate di un comune e pacifico accordo nel mettere fine ad un rapporto, frutto di aperte e condivise riflessioni.

Il rischio depressivo

Una quota di violenza traumatica accompagna la maggior parte dei casi, anche quando chi chiede aiuto è proprio colui che prende la dolorosa decisione di lasciare il partner.

Il dolore è quello tipico dello strappo, della lacerazione. Una parte di sè, della propria storia e del proprio mondo viene irrimediabilmente perduta, consegnando a vissuti di perdita e di vuoto che in soggetti predisposti possono preludere a veri e propri stati depressivi.

Coloro che sono più vulnerabili inoltre hanno delle difficoltà ad integrare il fallimento e l’immagine “lesa” di se stessi, scivolando, oltre che nella tristezza, in atteggiamenti di auto denigrazione e in rimuginazioni colpevolizzanti.

L’insopportabilità del malessere non di rado determina dei tentativi di negare l’accaduto, che si esprimono in chi viene lasciato tramite fantasie di riconquista, goffe avance o preghiere umilianti.

Al tempo stesso chi aveva deciso di chiudere il rapporto sulla base di considerazioni razionali può cercare di riprovarci sulla scia del sentimento di mancanza lancinante, pur sapendo bene che dopo sarà ancora peggio di prima.

L’ulteriore, inevitabile rifiuto o sconfitta che ne derivano non fanno altro che accentuare la disperazione e la difficoltà nel ritrovare un buon equilibrio slegato dalla presenza mentale dell’oggetto amato.

Il rapporto ormai non esiste più ma l’ossessione la fa da padrone. L’idea dell’altro non si dissolve, è sempre presente come un pensiero martellante. La psiche, rifiutando la perdita, cerca di compensare trattenendo l’oggetto interno, ben diverso da quello reale.

Una grossa quota della difficoltà a lasciare andare è data dallo scarto fra l’immagine interiore dell’amato e la realtà di esso. In questi casi l’amore è per lo più di matrice narcisistica, nella misura in cui non si ama l’altro nel suo reale, per quello che è (peggio incluso) ma si ama la sua immagine ideale, che poi alla fin fine è sempre la propria, il proprio miraggio impossibile da raggiungere.

Amare se stessi nell’altro è la trappola più insidiosa che porta sia a fare scelte sbagliate (abbagli che possono ripetersi nel corso della vita in maniera spettacolarmente ricorrente), sia a non riuscire a liberarsi psichicamente dopo una separazione.

Come uscirne?

Fanno sorridere le strategie che la buttano meramente sul comportamentale. Chi ha una minima esperienza di vita e un’intuitiva conoscenza delle dinamiche affettive sa che non bastano i “no contact”, le distrazioni, le negazioni e i rifugi compensatori in altre relazioni o esperienze.

Tutte queste possibilità hanno un valore potenziale, ma da sole sono come delle barriere di carta pronte a crollare al primo risveglio autentico. Sono strumenti che ingannano, perché illudono della possibilità di un qualche controllo. Invece i motivi inconsci che non portano a staccare restano in agguato, pronti a ripalesarsi quando la cenere ormai sembra raffreddata.

Eludere il confronto con la dimensione inconscia può avere un senso se la persona non ha gli strumenti per affrontarla. In psicoterapia valutiamo sempre la struttura mentale dell’assistito prima di spingere o meno nel senso di un’elaborazione più raffinata e complessa.

Esistono casi in cui per la salute mentale è meglio semplicemente calare il sipario, puntare superficialmente su una dimenticanza difensiva e su compensazioni di altro genere.

Chi invece ha la stoffa per affrontare la via più complessa è bene che si interroghi a fondo, per espandere il proprio livello di auto coscienza ed evitare fatali ripetizioni future.

Si può così magari scoprire, dietro ad ossessioni invincibili, il fantasma di un paterno assente o di un materno ingombrante. Si può cogliere il tentativo di rammendare una ferita antichissima, andando a scegliere nella realtà proprio chi  “somiglia” al genitore frustrante.

Amavo lei o mia madre in lei? Amavo lei o al fondo il me stesso che avrei voluto essere? Amavo lui o tentavo di riconquistare mio padre? Amavo lui o la sua immagine ideale? Amavo me in lui? Quanto ero disposta ad accogliere la sua diversità senza tentare di livellarla?

Ciò che ripara dal sentimento depressivo è la corretta identificazione della sua origine; la perdita spalanca la visione sulle ferite aperte del passato, su cui è così difficile indagare a causa della rimozione.

Il lavoro in terapia tuttavia non si limita ad una ricostruzione razionale, al rispondere a delle domande. Funziona se ci si appassiona alla ricerca, se se ne capisce emotivamente il senso e la funzione, se se ne sperimenta “fisicamente” la potenza.

Il transfert verso il terapeuta aiuta moltissimo in tale ottica, perché la sua opacità unitamente alla sua corporeità fa incontrare nuovamente proprio quel qualcosa che tiene avvinti all’oggetto da cui non ci si riesce a liberare, dando la possibilità di identificarlo, di vederlo in diretta, di parlarne e di conoscerlo sempre più a fondo.

Un resto di un amore infantile irrisolto resiste anche alle analisi più riuscite. Ma il suo potere patogeno ne esce molto ridimensionato, cessando di tenere in scacco le energie e restando come un frammento affascinante in rapporti sufficientemente equilibrati.

Rapporto uomo donna, Disagio contemporaneo