La forza della psicoterapia
Molte persone si avvicinano alla psicoterapia spinte da un’urgenza, da un malessere che sta prendendo pericolosamente il sopravvento.
Domanda di cura e angoscia
L’esperienza del fuori controllo conduce dallo specialista: l’angoscia, che prima non c’era o era di portata minore, dilaga paurosamente, indebolendo il senso di padronanza di sé stessi e portando a sviluppare sintomi e dipendenze di vario genere (che a loro volta possono comportare ulteriori danni e complicazioni).
Il movimento di entrata nella cura avviene quindi quasi sempre all’insegna della percezione di essersi persi, di aver smarrito la bussola in uno o in tutti gli ambiti della vita.
C’è chi (grazie a un Io forte) mantiene una buona tenuta sul lavoro o nelle relazioni ma poi si trova a fare cose assurde nella sfera privata, e chi più radicalmente viene travolto a trecentosessanta gradi, perdendo i consueti riferimenti e restando in balia dell’angoscia.
La domanda formulata in tutti i casi è quella di ritrovare un equilibrio e di poterlo ritrovare in fretta. Da una parte i problemi che tengono in scacco sono molteplici e stringenti, dall’altra la sensazione di non essere più sè stessi è profondamente destabilizzante e dolorosa.
I più dotati di strumenti mentali e comunicativi hanno già preliminarmente nell’intimo di sé stessi svolto una sorta di pre analisi della situazione, aiutando considerevolmente chi conduce la cura nel suo lavoro iniziale di delimitazione dei contorni del problema.
Le persone meno avvezze alla parola e più fragili a livello egoico devono affrontare una fatica supplementare, quella di esprimersi e di farsi comprendere.
I primi colloqui in psicoterapia
Va da sé come l’incontro iniziale con il terapeuta sia connotato da un mix di sensazioni contrastanti, di bisogno d’aiuto imperioso ma di timore che sia tutto inutile, che non si venga capiti o peggio giudicati.
Il curante, che si trova così a contatto con una richiesta famelica e al tempo stesso velata di sfiducia, deve il successo del suo operato non tanto alle sue indispensabili competenze ma alla sua “capacità negativa”, ovvero quella di restare nel caos delle richieste pressanti, del dolore e delle proiezioni negative mantenendo ben salda la rotta della navigazione.
La sua calma fiduciosa e la coscienza che le cose cambieranno in senso positivo viene passata all’assistito preda dell’angoscia, e, grazie ad un sapiente dosaggio di domande e interventi mirati, nei primi colloqui viene costruito un discorso che inizia a illuminare di senso l’oscurità.
Il passaggio dalla richiesta convulsa di “tutto e subito” (che sottende ritrosia e resistenze verso il percorso di cura) alla possibilità di sperimentare un percorso che implica tempo, è garantito da questo lavoro comune che si svolge nei primissimi colloqui.
Un parametro per chi si rivolge ad uno specialista per capire se il percorso che ha intrapreso è di una qualche efficacia è esattamente il “sentire” che qualcosa è accaduto nei primi incontri, che si è usciti dalla stanza del dottore non semplicemente più calmi e fiduciosi (spesso un semplice effetto suggestivo) ma soprattuto con qualcosa di diverso nella mente, una maggior chiarezza, un interrogativo che prima non esisteva, un contatto emotivo con una parte di sè tenuta nel cassetto, una visione più lucida ecc…
Il tutto non è l’esito di un’opinione personale del terapeuta trasferita nella testa del paziente. La suggestione dura poco, mentre l’effetto di apertura e di curiosità che si sprigiona a seguito di colloqui in cui si lavora proficuamente si fanno sentire nel tempo.
Gli interventi dei terapeuti che hanno una professionalità di un certo livello non scaturiscono dalla loro visione soggettiva, dalle loro esperienze, personalità o opinioni, piuttosto dalla capacità di riassemblare il materiale caotico e di trarne una forma visibile, come si fa ad esempio con le tessere di un puzzle scomposto.
La forma c’è già, bisogna tirarla fuori, farla emergere. L’intuizione è una dote fondamentale per un professionista che opera con le persone, tuttavia il vero asso nella manica è la capacità di ascolto, spesso fuori dal comune.
Piccoli, quasi irrilevanti dettagli vengono colti, orientando decisamente la lettura o suggerendo la necessità di un’ulteriore attesa prima di interpretare. A volte l’ovvio viene contraddetto proprio da piccolissimi frammenti, di parola o di emozione, che passano nell’incontro e rendono possibile avvicinarsi sempre più all’essenziale. La mente del terapeuta elabora e restituisce a tempo debito.
Grazie a questo lavoro l’angoscia non decade del tutto in poco tempo ma trova una condivisibilità e un argine di senso preziosissimi per ripartire.
Effetti terapeutici
Lo sblocco così ottenuto può essere ritenuto sufficiente e il lavoro terapeutico può venire concluso. Gli effetti terapeutici, che consistono nella ripresa della voglia di vivere, della volizione e del senso di sé possono bastare.
Esistono poi situazioni più complesse in cui sostanzialmente si apprezzano risultati positivi ma bisogna lavorare sulla dipendenza, un po’ la bestia nera dello psichismo umano.
Squadernare i perché e i percome spesso non basta, si possono però sostituire dipendenze malate con dipendenze sane e arrivare a conoscersi molto bene per non cadere sistematicamente e rovinosamente in circoli viziosi di cui si conosce la tossicità.
Il livello più alto viene raggiunto in ogni caso quando dal lamento rispetto alle proprie sfortune e frustrazioni si riesce ad accedere alla dimensione della responsabilità verso la propria imperfetta esistenza . A dirsi “bene mi è successo questo e quello ma io sono altro rispetto ai miei accidenti, cosa posso fare della mia vita esattamente così come è? ”
La terapia può costituire allora un viaggio per approdare al territorio dell’accettazione non passiva (altro è la rassegnazione), a ben vedere premessa e presupposto di ogni cambiamento stabile e duraturo nel tempo.