La perdita dei genitori
La morte di un genitore, a qualsiasi età avvenga, segna nella vita di una persona uno spartiacque.
Non si tratta soltanto di un dolore forte che prima o poi si attenuerà, della perdita di un’astratta innocenza o della coscienza della propria mortalità.
Tutte queste cose sono vere, ma da sole non bastano per rendere ragione del segno indelebile che in ogni esistenza si produce al momento del distacco definitivo.
L’angolo buio insondabile
Forse il cuore dell’esperienza consiste nella sperimentazione di una solitudine prima sconosciuta, anche quando lenita da altri affetti, dalla famiglia, dai figli, dagli amici o dal partner.
Pure se dal genitore perduto ci si è affrancati, sia psicologicamente che materialmente, e dunque la sua scomparsa non si traduce in un abbandono in circostanze concretamente difficili, qualcosa nella consueta vitalità si offusca, facendo spazio all’emergenza di un nucleo di freddezza mai sperimentato in precedenza.
Si potrebbe dire che tali sensazioni lievemente depersonalizzanti siano tipiche delle prime fasi del lutto, e questo è senz’altro vero: mano a mano che i mesi e poi gli anni passano il recupero è pressoché totale e l’equilibrio ristabilito.
Ma l’incontro con la morte, anche quando pienamente integrato e superato, lascia sempre un resto non riassorbibile, una cicatrice, un angolo buio dove non si riesce a guardare.
Più l’esperienza della perdita di un padre o di una madre avviene in giovane età, più ci si ritrova precocemente all’appuntamento con questo stato insondabile dell’affettività profonda, così difficile da definire tanto che molti nemmeno si accorgono di averlo dentro se stessi.
Si potrebbe dire che la morte di una persona cara, che è o è stata fondamentale per la vita, lascia in noi una piccola morte, qualcosa in noi muore insieme all’altro, sebbene tutto torni a scorrere serenamente.
Tale “piccola morte” va oltre l’esperienza circoscritta del lutto e non ha a che vedere con la depressione clinica. Essa è proprio il prodotto non assimilabile di un efficace lavoro di elaborazione della perdita, resta come una specie corpo estraneo in un organismo tornato sano.
Il paradosso del potenziamento della vitalità
Paradossalmente la presenza di questa nube non produce solo effetti negativi. Se da un lato in un giovane (che ancora non ha vissuto niente) il processo del lutto può ritardare l’accesso alla realizzazione di sogni e progetti, dall’altro la sperimentazione di questa solitudine siderale ad un certo punto può cominciare a sbloccare anziché inibire.
Di solito la movimentazione di energie ha luogo quando il ragazzo (ma anche l’adulto che opta per un rilancio esistenziale), anziché puntare a distrarsi e a tornare alla leggerezza del prima, accoglie il cambiamento in sé stesso e decide di farne qualcosa.
Oscuramente la coscienza di essere morti acuisce il senso della vita. Una voce interiore si fa sentire insistentemente, il “ricordati che devi morire” si traduce in “fai della tua vita qualcosa di utile e prezioso, non sprecare mai più tempo”.
È un fenomeno, questo, che vediamo in atto nelle persone che hanno subito traumi pesanti e che sono riuscite a non annegare nel dolore, nel rimpianto del prima e nella “morte in vita” a cui l’esperienza della lesione sembra condannare.
La morte uccide non solo chi se ne va, ma anche chi sopravvive. Al tempo stesso però risveglia, fa nascere di nuovo, se da essa non si tenta di scappare.
Il lutto rapido, la razionalizzazione, la ricerca di diversivi, lo stordimento, l’indifferenza sono mosse difensive comuni per tentare puerilmente di non farsi avvolgere dal mantello della morte. Il risultato nell’immediato può essere efficace ma nel lungo ogni negazione presenta il suo conto.
Da adulti perdere un genitore può far rileggere per la prima volta il proprio passato in maniera inedita, può portare a galla tematiche seppellite che se affrontate possono davvero aiutare a ridefinire un’economia psichica orientata in senso difensivo e permettere una maturazione.
Senza parlare poi dei lutti quando le relazioni con i genitori sono segnate pesantemente dall’ambivalenza e dalla conflittualità.
In questi scenari si aggiunge il senso di colpa, il dolore si mischia al sollievo per la morte del genitore amato e odiato, in un mix che se non affrontato può condurre verso stati depressivi.
Quando morte e colpa si intrecciano gli effetti sulla psiche sono come moltiplicati, la nube nell’animo si fa ancora più spessa e ingombrante, riflettendo la propria ombra nelle scelte e nelle relazioni importanti.
La psicoterapia può essere un’opzione utile per andare a rivedere delle cose, per fare chiarezza e forse anche per ritrovare un po’ di pace. Non tuttavia in un senso consolatorio o, peggio, sostitutivo delle figure ormai assenti.
Un buon lavoro psicoterapeutico origina sempre dalle premesse, dall’aver percorso già un pezzetto da soli, perché in terapia si resta e si resterà comunque soli davanti a noi stessi.
Male oscuro, Aiuto psicoterapeutico , Rapporto genitori figli