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Le urgenze in psicoterapia

In psicoterapia si possono presentare situazioni molto delicate, in genere connesse a stati di agitazione e confusione mentale.

Le persone che chiedono aiuto a volte stanno così male da non riuscire nè a esprimersi e pensare lucidamente nè a entrare in una disposizione d’animo ricettiva.

La domanda angosciata in psicoterapia 

L’insopportabilità del malessere, che ha dei caratteri oscuri e incomprensibili nella sua spinta autodistruttiva, porta a chiedere insistentemente al curante dei pareri o delle soluzioni concrete a cui ancorarsi.

Il terapeuta però, se cade nell’errore di pensare che l’indicazione di buon senso possa dare risultati, vede naufragare le sue speranze.

Il suo “consiglio”, recepito lì per lì, viene poi lasciato cadere. E ciò non per scarsa volontà o sfiducia, ma per via della natura dei meccanismi profondi che governano in senso masochistico la vita psichica delle persone.

La domanda angosciata “sul cosa fare” non può però nemmeno essere dribblata o blandita bonariamente con parole decongestionanti. Chi sta male si può così sentire totalmente inascoltato e incompreso, se non addirittura lasciato cadere. Dei suggerimenti concreti su questioni circoscritte e concrete ci possono stare, ma resta inteso che il lavoro va molto più in là.

Quando un paziente chiede in modo ripetitivo e monotono delle indicazioni su scelte complesse (come ad esempio chiudere o meno una relazione tossica ecc…) cosa sta realmente facendo? Di fatto si sta “sfogando”, sta cioè verbalizzando il suo conflitto interiore lacerante. 

“Cosa devo fare, cosa devo fare” detto e ridetto esprime lo stato di disperazione interiore di una mente che sa quel che sarebbe “giusto e congruo” ma non è in grado di accedere a quella forza e a quell’energia necessarie per contrastare la deriva che sta trascinando via.

Per capire il malessere mentale bisogna essere in grado di comprendere  questo aspetto: le persone sanno già quel che c’è da fare, cosa è giusto, ma non hanno la forza di opporsi al risucchio del “male”, che così riesce ad avere la meglio su qualsiasi atteggiamento “virtuoso”.

Anche insistere troppo sulla comprensione del fenomeno non fa andare molto lontano: una mente già frastornata e turbata non può reggere altro lavorio psichico, almeno non durante l’acuzie.

Aiuta invece prestare un ascolto vero e partecipato, ovvero condividere la turbolenza senza pretendere nè di risolverla nè di silenziarla.

Non si tratta di passività tout court ma di resa di fronte a qualcosa di grande, come se si trattasse di un fenomeno naturale che ormai si è scatenato e abbattuto su di noi e per il quale  non si può far altro che aspettare e confidare nell’attenuazione della sua violenza.

Il paziente beneficia di questo approccio perché non si sente solo nella tempesta, qualcuno spartisce con lui il suo dramma.

In ultima analisi dietro alla richiesta convulsa del consiglio (nel momento di peggior malessere) c’è quella dell’assunzione da parte di un altro essere umano di una porzione di “male” insopportabile nella solitudine della propria mente.

Non perché si desideri far stare male l’altro, ma perché si presume che l’altro, in quel momento più forte, possa mitigare la paura con la sua solida presenza di spirito, fatta di silenzi di compartecipazione e di parole piene di umanità e fermezza.

Il contenimento psichico in psicoterapia 

Questo meccanismo si chiama “contenimento”, ed è ciò che rende un genitore capace di aiutare il bambino in crisi. Anziché riempirlo di parole su cosa dovrebbe fare o chi dovrebbe essere o perché è diventato così, anziché blandirlo con rassicurazioni per portarlo finalmente al silenzio, il genitore contenitivo richiama in se stesso la sua parte bambina e vulnerabile, condividendo e stando nel dolore a partire dal fatto che oggi è un adulto che ha già attraversato quel tipo di tempeste.

Ciò fa capire come il mestiere di terapeuta non si impari sui libri e nemmeno dagli eventi che capitano nella vita. Non basta infatti che le cose capitino, bisogna vedere se esse lasciano in noi un ricordo vivo e una consapevolezza piena di come stavamo veramente quando le abbiamo vissute.

Se ricordiamo l’impotenza, il sentirsi persi, la confusione allora, uscendone, non ci siamo solamente tirati dietro le spalle tutto quanto ma abbiamo conservato la coscienza di essere simili a tutti gli altri uomini. 

Come siamo usciti noi da un’impasse non deve però diventare strumento di insegnamento; ognuno trova il suo modo di tornare a galla, l’importante per chi conduce una cura è sapere per esperienza che se ne può uscire.

Non avere fretta è un altro aspetto da non sottovalutare; chi è nella morsa del male vorrebbe liberarsene al più presto, ma noi sappiamo che i tempi sono lunghi e i percorsi sempre un po’ accidentati, mai del tutto lineari. 

Con questa predisposizione d’animo può verificarsi un incontro proficuo oppure esso può sfilacciarsi e interrompersi. Così come non sempre il terapeuta può trovarsi al top della forma 

Il filo è sottile; in genere il paziente non pretende alcuna perfezione, sente se c’è stoffa dall’altra parte, se il tutto non si limita a tecnicismi e formalismi.

Siamo nel campo di una scienza non esatta; l’importante è non perdere di vista la propria fallibilità, per non illudersi scioccamente di avere dei poteri o delle verità in tasca che rendono superiori rispetto a chi si trova nei guai. 

Male oscuro, Aiuto psicoterapeutico