Il figlio di Jean-Pierre e Luc Dardenne: paternità ed elaborazione del lutto
L’intreccio fra paternità e superamento del lutto: la vita che rinasce dopo la morte
Il film “Il figlio” dei fratelli Dardenne (2002) congruentemente con il tema che tratta è girato in modo non convenzionale: la tecnica con cui è realizzato e i contenuti che esprime smuovono emozioni e riflessioni non banali sul dolore umano e le impensabili vie che portano a una sua sublimazione.
Fin dalle prime scene i colori, le inquadrature, i silenzi fanno sentire a disagio e stare scomodi, forse per mettere in guardia lo spettatore e fargli arrivare “a pelle” il peso e la potente verità della vicenda.
Olivier è un padre che ha perso il suo unico figlioletto, strangolato da un ragazzino di 11 anni nel corso di un furto di autoradio.
È un uomo solo, la moglie lo ha lasciato dopo la morte del figlio. Il lavoro è tutta la sua vita e rappresenta la sua missione di vita, infatti nel suo laboratorio di falegnameria accoglie come apprendisti dei ragazzini disagiati, usciti dal riformatorio.
A distanza di 5 anni dalla morte del figlio fa domanda presso il suo laboratorio l’ignaro Francis, l’assassino del figlio, ormai sedicenne e reduce dal carcere minorile.
Olivier tentenna ma, senza sapere bene lui stesso perché, accetta di non rivelarsi come il padre della vittima e di iniziare a insegnare il mestiere proprio a colui che ha tolto la vita al suo ragazzo.
Tra i due scatta qualcosa, un interesse reciproco e un rispetto crescente anche da parte del ragazzino, pure lui attento osservatore di dettagli.
L’adozione come duplice salvezza
Olivier, non rifiutando l’incontro, si addentra in un territorio sconosciuto, decide di aprirsi alla conoscenza. Vuole capire, nella testa ci sono mille interrogativi non acquietati dal tempo e dall’odio.
Compie a tutti gli effetti un salto mortale salvifico, che confluisce successivamente in un atto di adozione che accade senza essere cercato nè voluto. Olivier infatti viene scelto da Francis, è lui che lo vuole come tutore, come quel padre che non ha mai avuto.
Tutto il significato del film ruota attorno alla decisione apparentemente folle di Olivier. “Sei pazzo? Perché lo fai?” gli chiede sconvolta la ex compagna.
La donna ha appena saputo di aspettare un figlio dal nuovo compagno, la soluzione al lutto l’ha trovata nella possibilità di tornare ad “essere” madre, nella generazione “concreta” di una nuova vita.
È la tipica soluzione femminile al lutto di un figlio, che procede per sostituzione.
Ma Olivier come può uscire dal suo buio, come può dare alla luce una nuova vita?
E qui troviamo la chiave per capire profondamente la scelta dell’uomo; da padre Olivier non può generare, può peró capire, fare qualcosa.
Infondo basta il suo lavoro a rivelarci la sua vocazione paterna, lui si occupa di insegnare un mestiere a ragazzini "persi". E' un uomo che nutre profonda fiducia nei figli, anche quelli non suoi (Come dare fiducia ai figli?)
Perché non farlo proprio con colui che ha incrociato il suo cammino per la seconda volta?
L’incontro con l’assassino del figlio costituisce infatti l’occasione fortuita, destinale, la possibilità di una duplice salvazione.
Dopo un lutto è l’anima dei sopravvissuti che ha bisogno di essere salvata, che va riportata alla vita.
E l’anima di Olivier e di Francis, prima del loro incontro fatale, era morta.
L’una pietrificata dalla perdita del suo frutto più prezioso, l’altra insultata da un omicidio involontario sul finire dell’infanzia.
Nel corso dello svolgimento della vicenda si apprende infatti che l’undicenne Francis non voleva uccidere. Scoperto dal figlio di Olivier durante il furto di un’autoradio perde il controllo, la situazione gli sfugge di mano e finisce per strangolare il ragazzino che “non mollava”, che evidentemente gli si era infantilmente attaccato addosso.
Una baruffa finita in tragedia fra ragazzini, fra un ladruncolo disagiato e un bambino “troppo” bravo (ed evidentemente innamorato della giustizia).
Il perdono come riconoscimento di sè nell’altro
Francis non è pentito prima di incontrare Olivier, si giustifica, pensa di aver pagato abbastanza, di aver chiuso i conti scontando la pena nel carcere minorile.
Ma senza sonniferi la notte non può dormire, la sua è un’esistenza misera, che si trascina nel silenzio e nella solitudine dell’abbandono (la madre, manipolata dal patrigno, non lo vuole più con sè).
Francis è “senza perdono”, a parole si difende ma nel profondo è condannato da tutti, compreso da se stesso.
Olivier, nello sforzo di capire, lo vede, è la prima persona che lo tratta come un essere umano. Egli non cede alla rabbia e al giudizio, e in ogni snodo cruciale della vicenda fa segno di rivedersi in lui, di riconoscere il peso che entrambi condividono.
La schiena di Olivier è sostenuta da una fascia di cuoio, metafora della fatica e del dolore che piegano il corpo fisico.
Eppure a discapito di ciò egli resta agile e scattante, a dimostrazione della forza e della resilienza del suo spirito.
Nella scena finale del film, in cui si rivela a Francis come il padre della vittima, mostra tutta la sua forza, la sua supremazia e il suo lato potenzialmente distruttivo.
Si compie così il rovesciamento del destino che sembra già scritto: nell’immobilizzare fisicamente il ragazzo che terrorizzato tenta di scappare, nel risparmiargli la vita, e infine nel rimettere il focus sull’apprendimento del mestiere (il lavoro con le assi di legno) Olivier fa rivivere a Francis il trauma a parti invertite e con un esito rovesciato, dove egli ora è la vittima che viene risparmiata.
In questo modo la ripetizione della violenza è fermata, il cerchio è spezzato.
Grazie a questa grande lezione che somiglia a un rito di iniziazione avviene lo sblocco e la rinascita, Francis può accedere finalmente a una vita che possa dirsi tale mentre Olivier può riprendere il suo cammino esistenziale interrotto dal trauma.
Entrambi, nel loro incontro, recuperano la loro umanità.