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Lettera a un bambino mai nato

Oriana Fallaci

Il dilemma di dare la vita o negarla: da una donna per tutte le donne

Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci non è un libro consolante né rassicurante, non offre risposte universali ma, pur raccontando la vicenda particolare della protagonista, catapulta in un diluvio di domande e di ragionamenti mai banali sul tema della maternità e più in generale sulla condizione umana.

Nonostante la scorrevolezza e la prosa poetica, esso richiede al lettore uno sforzo, un ascolto libero da pregiudizi, la sospensione della fretta di capire e di incasellare e infine la disponibilità a lasciarsi condurre nella complessità, nelle contraddizioni, nei dubbi, nei moti inconsci, nell’esperienza del dolore, della malinconia nera e del suo stretto intrecciarsi alla vita.

Il tema è quello della maternità come evento che irrompe dal nulla ma che riprecipita nel nulla di un aborto spontaneo.

La maternità mancata: il rischio della colpa e della depressione

Maternità mancata dunque, argomento attualissimo nonostante le conquiste sociali delle donne, i progressi della scienza e la realizzazione recente di pratiche di fecondazione assistita considerate avveniristiche ai tempi della stesura del testo (il libro viene pubblicato nel 1975).

Uno psicoterapeuta sa bene quanto lo svanire della possibilità di divenire madre tocchi nel profondo ogni donna, sia che questo venir meno sia dovuto alla biologia, al destino, a una scelta inconscia, a una volontà lucida e presente a se stessa o all’insieme di tutte queste quattro le possibilità.

In alcuni casi, quando non si riesce ad elaborare il lutto il dolore può essere così forte da spingere verso la depressione, il senso di colpa può rivelarsi talmente totalizzante e schiacciante da insinuare un desiderio di morte persino nel soggetto più amante della vita, così come avviene per la protagonista del libro, sempre sospesa fra sentimenti estremi e opposti, (“amore” struggente per la vita e annullamento totale di sè).

Il rapporto conflittuale fra la donna e la madre

Ma la Fallaci approfondisce ulteriormente questo punto, ci fa vedere tutta la problematicità del rapporto fra la donna (che resta sempre una Persona, ovvero un essere umano dotato di intelligenza e di libertà individuale) e la madre, sempre a rischio di restare “ostaggio” della vita che porta in grembo ma anche sempre passibile di diventare ella stessa il “padrone”onnipotente nella vita del figlio, già dal momento in cui decide di metterlo al mondo.

Le esigenze e le caratteristiche umane della madre e quelle della donna non trovano una conciliazione, così che nella personalità della protagonista alle prese con una gravidanza difficile ad un certo punto si realizza una vera e propria scissione in due parti contrapposte.

L’amore per sè, inteso come spinta autorealizzativa, cozza con l’amore per l’altro, che richiede rinunce e sacrifici (ma anche lo stesso amore per l’altro infondo svela un fondo fatalmente egoistico e mortifero, una volontà di controllo e una confusività simbiotica).

Il tutto sullo sfondo dell’inconsistenza dell’uomo e del legame d’amore (il compagno della protagonista non solo non vuole il bambino ma non nutre nemmeno nessun sentimento verso la donna), della solitudine affettiva e della riprovazione sociale, che esasperano il tono drammatico dell’opera.

Una goccia di vita scappata dal nulla: il dubbio e la figura della madre onnipotente

È la paura l’emozione iniziale della protagonista, una donna che vive da sola, che lavora e che improvvisamente scopre di essere incinta: “ e se nascere non ti piacesse?”

Non sono tanto i problemi pratici o la difficoltà a crescere da sola un figlio ad angosciarla, questioni per le quali pensa di essere ben attrezzata.

Il dubbio è piuttosto di natura etica: la donna ammette di essere contenta di esser nata, di essere uscita dal nulla, ma si chiede se sia lecito imporre questo suo ragionamento. Si interroga cioè fin da subito sulla sua posizione “padronale” verso la vita altrui e dopo un periodo di riflessione accetta che sia così: “ho deciso per te: nascerai…anche il mondo in cui ci troviamo non incominciò per caso?…tutto avvenne perchè doveva avvenire, secondo una prepotenza che era l’unica prepotenza legittima… Mi prendo la responsabilità della scelta”.

La Fallaci ci vuole dire che ogni maternità, in tutte le sue fasi, comporta un momento di scelta da parte della donna che porta in grembo il bambino, ovvero la libertà di dire di sì ma anche di no.

Si tratta in ogni caso di un atto di prepotenza, l’unico che ritiene legittimo, ma che già introduce un possibile lato oscuro del materno: “vi è un che di glorioso nel chiudere dentro il proprio corpo un’altra vita, nel sapersi due anzichè uno. A momenti ti invade addirittura un senso di trionfo e nella serenità che accompagna il trionfo nulla ti preoccupa”.

La gravidanza a rischio e la figura della madre vittima

Mano a mano che la gravidanza procede subentrano però delle complicazioni, dapprima una goccia di sangue roseo, piccoli dolori che si trasformano via via in problematiche più complesse.

La protagonista, nel momento in cui vede la sua vita di donna libera e lavoratrice limitarsi per la necessità di osservare un riposo assoluto (il dottore la mette a letto), comincia a problematizzare questa visione iniziale.

La madre si trasforma in vittima: “tenendoti non faccio altro che piegarmi al comando che mi impartisti quando si accese la tua goccia di vita. Non ho scelto nulla, ho obbedito, fra me e te la possibile vittima non sei te bambino, sono io”.

Nell’immobilismo inoltre ella sviluppa una serie di riflessioni rispetto alla brutalità della vita. Il suo pessimismo lucido si sostanzia nella narrazione al suo bambino immaginario (la donna parla con il bambino ma in realtà parla a se stessa) di riflessioni e di fiabe dal contenuto drammatico, in cui i legami familiari sono visti come asfissianti, il lavoro come un ricatto, la società come dominata dalla legge del più forte e la speranza nel domani una pura illusione.

L’ospedalizzazione e il riposo forzato la esasperano al punto da farla sentire impaurita e arrabbiata con il bambino: “cosa credi che sia io, un contenitore, un barattolo dove si mette un oggetto da custodire? Sono una donna, sono una persona, non posso svitarmi il cervello e impedirmi di pensare… tu al posto del persecutore e io al posto del perseguitato… Ti insinuasti in me come un ladro e mi rapinasti il ventre, il sangue e il respiro. Ora vorresti rapinarmi l’esistenza intera. Non te lo permetterò, se riuscirai a nascere nascerai, se non ci riuscirai, morirai: io non ti ammazzo, sia chiaro: semplicemente mi rifiuto di aiutarti ad esercitare fino in fondo la tua tirannia”.

La decisione di tornare a lavorare trova un avvallo da parte di una seconda dottoressa, che dopo averla visitata le dà il via libera alla vita attiva di sempre. Una maternità felice è sempre una maternità libera.

Ma le strade dissestate, le ore passate alla guida della sua automobile o più probabilmente il  semplice destino si metteranno di traverso: il feto va incontro ad un aborto spontaneo.

 Il senso di colpa e il tribunale interiore 

Nel momento in cui la protagonista acquisisce la certezza della morte del feto, subito dopo la visita medica, per un breve istante predomina la parte razionale: “è andata come doveva andare, dunque ci vuole coerenza”.

Ma dopo poco esplode la reazione emotiva: ella si lascia andare al pianto, urla, sviene.

E’ il principio del delirio, vera e propria teatralizzazione del suo conflitto interiore.

Nella sua fantasia si ritrova improvvisamente all’interno di un processo dove lei è l’accusata: attorno vi sono sette personaggi che costituiscono la giuria e che si alternano come testimoni e come giudici.

Il primo è il medico che la voleva costringere a letto per mesi: egli la considera un’assassina, un’infanticida, senza mezzi termini. Il feto per lui equivale a un essere umano completo.

La seconda dottoressa invece la assolve pienamente, definendola come una “realtà da non distruggere”, dato che “fra una possibilità sconosciuta e una realtà da non distruggere c’è da scegliere quest’ultima”.

La dottoressa non ha nessun dubbio sulla sua buona fede: ella non voleva affatto la morte del suo bambino, rivoleva la propria vita semmai! E poi anche se questa donna avesse nutrito un desidero inconscio di morte verso il figlio ció sarebbe stato da interpretare come legittima difesa.

Anche l’amica storica difende la protagonista: la maternità non è un dovere morale, non è nemmeno un fatto biologico, è una scelta cosciente.

Il padre del bambino e il datore di lavoro invece giudicano colpevole l’imputata, accusandola di arrivismo e carrierismo.

Mentre i genitori assolvono pienamente la figlia: “perché nessuno può entrare nell’anima altrui…vi è solo un testimone qui che potrebbe spiegarci come sono andate le cose, questo testimone è il bambino che non può…”

Ecco allora intervenire in questo tribunale interiore il bambino stesso, il quale spiega come ciascuno di coloro che si sono espressi al processo dica una verità: “me l’hai insegnato, tu la verità è fatta di molte verità differenti”.

“Sei stata così brava a convincermi che nascere è bello e scappare dal nulla una gioia… Ma poi crebbero le tue incertezze, i tuoi dubbi. Un giorno attribuisti a me la decisione di esistere, affermasti di aver obbedito al mio ordine, non a una tua scelta. Mi accusasti di essere il tuo padrone, tu la mia vittima non io la tua. Giungesti addirittura a sfidarmi, spiegando cos’era la vita da voi, una trappola priva di libertà, di felicità, di amore, un pozzo di schiavitù e di violenza da cui non mi sarei potuto sottrarre. Quando te ne accorgesti era troppo tardi, mi stavo già suicidando…Non appena compresi che tu non credevi alla vita, che facevi uno sforzo ad abitarci e a portare me ad abitarci io mi permisi di rifiutare di nascere… se la vita è un tormento perché approdarci?”

La vittoria della vita nonostante la morte   

Le parole del bambino, così come quelle di ogni personaggio che parla nel tribunale della mente, cosa sono se non l’espressione della pluralità della coscienza della donna? La donna è divisa fra il sì alla vita che è nata in lei e il realismo lucido e pessimista che la abita. 

Ciò che determina la morte del bambino non sono le vibrazioni provocate dalle strade dissestate, non si tratta cioè banalmente della decisione di tornare a lavorare. E nemmeno si può chiamare in causa il pessimismo della donna, come fa il bambino in quanto personificazione delle autoaccuse della protagonista. Ella si dibatte perpetuamente fra speranza e amarezza, fra slancio e disincanto ma non è una pessimista senza passione e senza desiderio. La fatica di vivere, l'insofferenza per le prepotenze e le ingiustizie è proporzionale all'amore struggente per la vita che abita questo complesso personaggio. 

Il bambino dunque la giudica colpevole perché lei si giudica colpevole, la condanna perché lei si condanna per l'accaduto. E' il suo Super Io ad accusarla, ma il Super Io non ha mai ragione. 

Nel temporeggiare rispetto all’intervento per raschiare via il feto morto, ella non svela un istinto di morte senza freni ma il suo non riuscire rapidamente a lasciare andare il bambino, il suo non accettare immediatamente la morte e la fine di quel mondo a due che le si era dischiuso come possibilità alternativa alla solitudine radicale della sua anima.

Il dolore necessita di tempo per essere elaborato. 

Ma quando finalmente si risveglia con prepotenza il desiderio di vivere, di non punirsi più fino al punto di morire di setticemia, la protagonista riacquista lucidità e si sottopone precipitosamente all’intervento. Ormai però è troppo tardi: la morte fatalmente è in agguato, il destino si realizza per una seconda volta, senza che sia colpa di nessuno. 

“Tu sei morto. Ora muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore”.

Queste sono le parole con cui si chiude il romanzo. In punto di morte la protagonista afferma la verità rimasta nascosta, ossia il suo amore indiscutibile per la vita.

Rapporto uomo donna, Rapporto genitori figli