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Un Uomo di Oriana Fallaci: il valore della disubbidienza

Oriana Fallaci con Alekos Panagulis

La bellezza lirica e la freschezza del messaggio di "Un Uomo"

"Un Uomo" è il celebre romanzo di Oriana Fallaci scritto in memoria di Alekos Panagulis, suo compagno nonché “eroe“ anarchico della Grecia degli anni settanta, assassinato dal regime falsamente democratico che segue la dittatura di Georgios Papadopoulos.

Il libro, un condensato di ispirazione, dramma e poesia, stordisce per la bellezza stilistica e per la ricchezza degli stimoli che offre al lettore. Dentro ci troviamo la Storia, l’intrigo politico, l’affresco paesaggistico, le passioni, l’amore, il dolore, l’introspezione psicologica, la metafisica, la riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo ecc…

L’abilità unica della scrittrice di intrecciare il piano sociale con quello emotivo ed esistenziale è preziosa anche per chi, in veste di psicoterapeuta, si occupa a livello clinico dell’uomo e delle sue sofferenze.

Il libro infatti, pur essendo quanto di più lontano da un trattato di psicologia, nel raccontare la sofferenza umana dei protagonisti ne svela e ne approfondisce le ragioni, ne canta le sfumature, ne indaga la conflittualità interna, mettendo però sempre in valore la forza del singolo e la sua capacità di resistenza nei confronti delle brutture e delle inevitabili sconfitte.

La vita di Panagulis come “simbolo” della resistenza umana al livellamento omologante delle varie forme di tirannia

La tragicità della vita di Panagulis, non negata ma messa in scena con un realismo a tratti lirico, trova un contrappeso nella “disubbidienza” coltivata come un dovere etico e come una virtù là dove la tirannia minaccia, soffoca e inibisce le potenzialità espressive di ogni essere umano.

Non a caso il titolo del romanzo è “Un Uomo” e non “Alekos Panagulis”.

La straordinaria vicenda esistenziale del protagonista infatti si presta a farne un simbolo, il simbolo della resistenza, ovvero dell’emancipazione dell’essere umano dai suoi accidenti, dalle aggressioni violente di qualsiasi tirannia (non dunque soltanto la tirannia politica ma qualsiasi evento che mina la libertà del singolo, sia esso la famiglia, la società, la povertà, la malattia, il bullo, il prepotente ecc…).

Fallaci, tramite il ritratto senza sconti e senza idealità di Panagulis, dapprima esposto ad atroci torture sopportate stoicamente e infine schiacciato da un sistema a cui non si piega, ci presenta la possibilità che come esseri umani abbiamo in mano per restare psicologicamente ed emotivamente vivi nonostante le ferite e le cicatrici inflitte dalla vita.

Questa possibilità si chiama disubbidienza, assunzione della solitudine, “dire no”, dire la propria, tener fede a se stessi, usare la propria testa, non accontentarsi di verità propinate da altri, conoscere, opporsi al meccanismo livellante che ruba l’anima e trasforma in zombie tramortiti dagli abusi dei potenti.

Per vivere, ci insegna Fallaci tramite la storia dell’eroe che muore, bisogna essere pronti a morire. Bisogna cioè avere coraggio, andare fino in fondo nelle nostre azioni e decisioni nonostante la paura, i sintomi post traumatici e la disperazione.

Il protagonista è lacerato da sbalzi di umore, da depressione e monomanie, da vizi e contraddizioni, è un personaggio vero, spesso estremo ma mai finto e mai rassegnato, sempre in lotta e sempre vivo. Egli, nonostante la sofferenza, i fallimenti e gli sbandamenti, non molla mai.

La morte si rivela l’esito inevitabile e tragico della sua coerenza, ma è una morte che simbolicamente indebolisce il potere e ne svela la meschinità. Dunque una morte non vana, non inutile, che apre ad altro.

Panagulis paga con la vita ma si trasforma in un esempio, in un simbolo di resistenza individuale, preziosissimo per tutti noi e per la nostra civiltà.

Per certi versi ricorda i nostri Falcone e Borsellino, gli eroi italiani uccisi dalla mafia ma resi immortali, resi cioè dei simboli della giustizia, della lotta, della passione per la verità, della forza umana che non si piega davanti nulla, nemmeno davanti al potere terrificante e ricattatorio dei mafiosi.

La disubbidienza: una possibilità di guarigione psichica ed emotiva

Noi comuni mortali nel rifiutare le varie tirannie che ci opprimono (il giudizio degli altri, i diktat sociali, le mode, i prepotenti, le malattie ecc…) paghiamo prezzi meno estremi, le nostre sono piccole morti, grazie alle quali però guariamo, torniamo alla vita, perché impediamo al malessere di annebbiarci nella rassegnazione e nel conformismo.

Rassegnazione e uniformità alla massa sono infatti alienanti, spengono la creatività, l’iniziativa, la voglia di fare e di esserci e fanno lentamente affogare in un senso di futilità e di inerzia che spesso ritroviamo in molte persone che chiedono aiuto.

Grazie alla testimonianza di questi martiri della libertà nel nostro piccolo possiamo allora coltivare la possibilità di differenziarci dal gregge, e differenziandoci dalle pecore impaurite diventiamo uomini interiormente liberi, in grado di trasmettere ad altri uomini messaggi di speranza e di vitalità.

Nel dire no!, nel disubbidire, nel rifiutare la passività ci scolliamo dalla coincidenza con il male che ci affligge. Se questo male non lo possiamo uccidere lo possiamo peró mettere in prospettiva, staccarcelo di dosso rifiutando l’identificazione conformistica con esso.

Non a caso la Fallaci, ammalatasi di tumore, chiamava il suo male “l’alieno”, per sottolineare la non coincidenza del suo essere con la malattia e le limitazioni che impone. E così facendo poteva andare avanti ad essere produttiva, viva, presente, non schiacciata e non sconfitta anzitempo, non ridotta a una “malata di”.

La ribellione vera infatti non è mai sterile, spinge a lavorare, a pensare, a esprimersi in atti concreti, frutto di riflessioni e di disciplina. La ribellione fine a se stessa e senza responsabilità risospinge invece nel campo di quelli che Panagulis chiamava “rivoluzionari del cazzo”, ovvero inconcludenti oppositori del sistema sempre pronti a vendersi ad esso alla prima occasione.

Il caratteraccio proverbiale della scrittrice costituiva poi il suo modo per esteriorizzare la coscienza lucida del male “non sono io antipatica, è la vita che è antipatica con me”, ma esso non ne limitava anzi, ne proteggeva e custodiva, la sensibilità estrema e la parola poetica.

Infine se la morte per gli esseri viventi è un fattore inevitabile e ineliminabile, essa può essere rimandata, non anticipata con una morte in vita. La vita stessa acquisisce la sua bellezza e la sua potenza proprio in rapporto alla morte. “La vita è bella anche quando è brutta!” osserva con trasporto Panagulis poche settimane prima di morire.

L’amore come manifestazione di libertà

Il messaggio di resistenza racchiuso nel romanzo si estende anche al rapporto d’amore, messo, come quello di tutti, a dura prova dalle differenze caratteriali, dalle sofferenze e dai reciproci sintomi.

Fallaci e Panagulis non permettono all’idealizzazione e all’inevitabile svalutazione (dovuta quest’ultima alla delusione connessa alla conoscenza profonda dell’altro) di uccidere la purezza del sentimento.

L’amore, quando è di sostanza e non un abbaglio, è allora anch’esso disubbidienza, resistenza agli inganni della seduzione, al livellamento del tempo, all'incasellamento in una definizione universale ecc...

Esso è frutto dell'incontro fra anime libere che, benché intrappolate nelle reciproche identità in collisione e persino opposte, si vogliono nonostante tutto, si perdonano, si sforzano di capirsi, provano compassione l’uno per l’altro, perché al fondo si somigliano e si riconoscono come “cani senza parrocchia e senza partito".

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