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La vergogna e la resistenza: la sindrome del sopravvissuto nei Sommersi e i Salvati

Copertina libro I Sommersi e i Salvati

Il dolore inguaribile: la straordinaria figura di Primo Levi

Giacomo Leopardi, ci racconta Primo Levi nel terzo capitolo “La vergogna” dei “Sommersi e i Salvati”, in realtà, suo malgrado, era un ottimista.

Nessuna lietezza nell’"uscir di pena", se per Leopardi la felicità non esisteva, ma consisteva semplicemente nello scampato pericolo, l’ora della liberazione dei prigionieri dei campi di concentramento non fu lieta né spensierata.

Essi, andati incontro allo spossessamento della loro umanità a causa delle indicibili sevizie subite, ritornando nel mondo degli uomini civili furono travolti da un dolore estenuante, definitivo, non più medicabile, non più guaribile.

Così fu per Primo Levi, figura straordinaria perché, nonostante la ”destituzione” umana che lo toccò, riuscì comunque a restare un Uomo.

La sindrome del sopravvissuto: angoscia e vergogna

L’angoscia è il nome di questo dolore, angoscia “bianca”, indifferenziata, senza nome. Angoscia di cui è impossibile liberarsi, che può solo tacere a lungo e palesarsi all’improvviso, come un incubo ricorrente.

Accanto all’angoscia, la vergogna, “la vergogna che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri”, la vergogna di non aver potuto reagire, la vergogna di essersi salvati, la vergogna di aver temporaneamente perduto nell’abiezione indotta dal campo il pieno esercizio delle virtù umane, la solidarietà, il coraggio, la capacità di opporsi al giogo della violenza.

Lo stesso Primo Levi questa vergogna la chiama “senso di colpa”, colpa di essere sopravvissuti nel corpo e di essere offesi, feriti nell’anima.

Come è noto questo fenomeno viene comunemente chiamato come  "la sindrome del sopravvissuto", evento molto comune in chi resta vittima di un disturbo postraumatico da stress, indotto da situazioni terribilmente violente che hanno superato le capacità di contenimento della psiche umana.

Ma il vissuto di colpa è anche qualcosa che assilla i temperamenti più sensibili, più miti, per natura refrattari ad ogni forma di violenza e di aggressività.

La mitezza dello sguardo del poeta 

Primo Levi nel suo animo era una persona mite, per nulla fragile né remissiva (sbrigativamente e superficialmente si tende ad attribuire una connotazione negativa alla mitezza), incline alla gentilezza verso il prossimo, alla poesia, alla malinconia e alla riflessione onesta.

La brutalità portata all’estremo subita in quegli anni provocò una lacerazione nel suo intimo, profonda, non cancellabile nonostante la catarsi della scrittura, esponendolo in maniera ricorrente agli attacchi della depressione (che ebbe purtroppo un esito suicida)

Ma proprio grazie alla sua mitezza lo scrittore non si trasformò in canaglia, in bestia o in un essere umano sigillato dall’indifferenza.

Depressione clinica e suicidio: un legame non scontato

Negli accessi di depressione clinica il senso di colpa si espande a dismisura, cresce fino al delirio di colpa, diventa così sfibrante da far vedere come unica soluzione la pace, il riposo eterno della morte, l’uscita definitiva della scena del mondo.

Ma questo a parere di chi scrive non è precisamente il caso di Primo Levi, la cui mente resta sempre estremamente presente a se stessa fino alla fine.

Ci si può uccidere per scelta, perché la morte è integrata nella sua ineluttabilità e non pavidamente rifiutata. Se so che devo morire perché non scegliere quando e come farlo? La libertà umana è anche questo, poter stabilire quando se ne ha abbastanza.

Primo Levi non era costituzionalmente un depresso, l’esposizione all’orrore della prigionia incrinò dentro di lui qualcosa ma non ne guastò il senso dell’umano e la lucidità intellettuale, anzi, paradossalmente le incrementò.

Le riflessioni sul negativo e sulla banalità del male

Egli riuscì a conservare umanità e intelletto durante la permanenza in campo, ed esse, unitamente alla più volte citata fortuna, furono le sue armi di resistenza e di sopravvivenza all’olocausto.

Lo furono anche dopo, lo scrittore le espanse a tal punto da offrirci pagine ricchissime non solo di testimonianza storica e umana, ma anche di acute riflessioni su come uomini del tutto “normali” siano stati capaci di trasformarsi in assassini feroci.

Chiunque, e non di meno psicologi e addetti alle professioni di aiuto, dovrebbe leggere Primo Levi e mettersi a pensare, lasciando indietro i pregiudizi indotti dalla propria formazione. Espandere la consapevolezza, combattere l’ignoranza  resta l’unico antidoto al proliferare nel negativo.

Altri importanti pensatori come Anna Harendt (la banalità del male) ma anche Adorno, Zygmunt Baumann, John Steiner (per citarne solo alcuni) attraverso studi ed esperienze scientifiche erano giunti alle stesse riflessioni e conclusioni di Primo Levi.

L’atteggiamento criminale, crudele, “nazista” non è tipico soltanto dello psicopatico, dell’uomo malato, ma è inquietantemente in mezzo a noi. La conformità al gruppo, il conformismo di comodo, l’inclinazione ad ubbidire agli ordini, a soggiacere a qualche autorità, insieme allo zelo, al desiderio di fare carriera, all’ambizione sono sempre l’annuncio di una qualche tragedia sociale, anche nella cosiddetta vita normale.

Questi elementi riscontrabili in ogni comunità umana, tutti i giorni, in determinate circostanze, là dove si afferma un regime senza democrazia e dove prevale l’indottrinamento, l’ideologia fanatica, possono portare uomini normalissimi a diventare degli invasati assassini, dei criminali.

Nei “Sommersi e Salvati” troviamo tutto questo, e troviamo la testimonianza di un uomo che finché ha vissuto si è sempre opposto con disubbidienza interiore alla “menomazione” che la violenza di regime provoca agli animi e alle menti.

La difesa del suicidio come scelta umana

La ribellione di Primo Levi all’annientamento dell’uomo e delle sue facoltà si manifesta persino nella difesa del suicidio come scelta profondamente umana.

Non è un caso che i suicidi degli ex prigionieri si siano svolti tutti fuori dai campi di concentramento, perché nel campo l’uomo non era più uomo, era un animale assoggettato, costretto dalla fame e dalla sete e dal bastone a comportarsi come un automa senza volontà.

Questo è un punto che dovrebbe interrogare i clinici e indurli a non bollare frettolosamente il suicidio come spia di malattia mentale e la depressione come un difetto di fabbrica. Esistono dei suicidi, come quello di Primo Levi, che assomigliano più a un’eutanasia che a un atto di disperazione, alla decisione di porre fine alla propria vita in piena lucidità, quando si è stabilito che si è sofferto abbastanza, che si è dato il proprio contributo e che può bastare così.

La colpa e la vergogna non spiegano integralmente il gesto definitivo dello scrittore; la sua non è necessariamente una resa (tramite l’esempio della sua vita attiva e impegnata abbiamo le prove della sua ossatura morale e del suo desiderio di contribuire al benessere dell’umanità) bensì una scelta coraggiosa: tutti prima o poi dovremo uscire di scena, e la rimozione del nostro destino ineluttabile di morte non coincide certo con la cosiddetta “sanità psichica”.

Rimuovere la propria morte purtroppo porta le persone a perdersi in stupidità ed egoismi raggelanti, in paure che rendono vili e dunque allora sì, dei "morti viventi."

Mentre integrare la morte nel nostro destino potenzia il nostro essere vivi e attivi rispetto alle cose sostanziali, ci rende persone generose e sensibili alla comprensione autentica di noi stessi e del nostro simile.

Primo Levi è l’esempio di un uomo che è riuscito, proprio a causa dell’orrore di Auschwitz, ad esplorare con sguardo rigoroso e scientifico le pieghe più scabrose dell’animo umano e della società.

La sua formazione di chimico lo ha spinto ad interrogare senza sovrastrutture le "reazioni chimiche" indotte dai fenomeni umani, rendendolo un pensatore libero e non indottrinato da ideologie, un esempio per tutti noi.

Male oscuro, Affrontare il senso di vuoto, Oscillazioni del tono dell'umore