La violenza del linguaggio e i suoi effetti sulla psiche

Il linguaggio traumatico e l'effetto di annientamento soggettivo
Il linguaggio è uno strumento che ha un impatto molto potente sulla psiche. Esso può essere salvifico o traumatico, al pari di un abbraccio o di un colpo sferrato in petto.
La violenza del linguaggio può manifestarsi in ogni contesto umano: in famiglia, a scuola, a lavoro, nei gruppi di amici, nei mass media, nei libri, nelle conferenze, nelle stanze della politica e persino nei luoghi di cura o di culto.
La violenza verbale in famiglia diretta contro i bambini costituisce la manifestazione più ricca di implicazioni negative sulla psiche, proprio perché il bambino dipende dalla parola dell’altro per la strutturazione dell’immagine di sé. I problemi di autostima sono il risultato onnipresente negli adulti vittime da bambini di violenza verbale fra le mura domestiche.
Il linguaggio violento per antonomasia è l’insulto, la parola urlata con rabbia contro l’altro, scagliata come una pallottola.
L’attacco contenuto nell’offesa verbale è frontale ed esplicito, senza mezzi termini. Quanto più l’ingiuria colpisce nel punto debole dell’altro, tanto più essa risulta efficace nel ferire e nel produrre effetti destabilizzanti sull’equilibrio psicologico.
La finalità della violenza verbale infatti è sempre la manipolazione, ovvero la volontà di minare la sicurezza interiore dell’altro per ottenerne l’annientamento e la sottomissione.
Esiste poi una forma di aggressione verbale più subdola, indiretta ma non meno affilata. Essa consiste nell’allusione, nel dire senza dire, nell’usare una parola per un’altra in modo che il messaggio arrivi forte e chiaro senza che sia detto nulla di male, in maniera elegante.
Entrambe le tipologie possono interessare individui singoli, gruppi contrapposti oppure, nel peggiore dei casi, configurarsi come violenza di gruppo a scapito di una singola persona, divenuta bersaglio del branco. In quest’ultimo caso si può parlare di vero e proprio bullismo relazionale.
Le reazioni al liguaggio violento: silenzio, difesa speculare, richiesta di chiarimento
Il silenzio è la reazione più frequente nel destinatario degli attacchi verbali quando essi sono inaspettati, ovvero quando accadono in luoghi o situazioni in cui egli non non si aspetterebbe l’attacco o lo sgambetto.
Naturalmente all’aggressione verbale può seguire una reazione speculare, in un crescendo di tensione che può culminare nel distanziamento o nel passaggio all’atto fisico.
Quando invece il tutto su gioca sul terreno dell’allusione le stilettate possono essere restituite subito o alla prossima occasione, determinando un clima relazionale particolarmente tossico.
La violenza verbale può quindi essere restituita in una dinamica di attacco-difesa che porta alla baruffa o al lento avvelenamento della relazione. Nella coppia o nei gruppi umani situazioni del genere sono soltanto distruttive, perché bloccano qualsiasi cooperazione e possibilità di sviluppo.
Lo scenario non è buono nemmeno quando la violenza verbale non viene restituita ma sistematicamente incassata dalla stessa parte. Essa sfocia in uno schema rigido di vittima-carnefice, non esente da possibili derive esplosive.
Esistono fortunatamente casi in cui la violenza verbale viene affrontata e arginata da un successivo confronto, a mente lucida.
Chi subisce il torto chiede all’altro un dialogo che, per rivelarsi produttivo, implica il suo ascolto e la sua disponibilità verso l’auto critica. Anche l’iniziatore dell’offesa può per primo pentirsi e ingaggiare un tentativo di riparazione.
La parola racchiude quindi la possibilità di essere utilizzata in un’altra maniera, secondo una logica non simmetrica. Essa non ha il potere di “neutralizzare” gli effetti del linguaggio ma di “ripararli”.
Quando questo accade i soggetti coinvolti riescono ad andare oltre l’orgoglio e i vittimismi. Essi si mettono in gioco, offrendo le proprie scuse e la propria disponibilità a superare l’accaduto.
Senza tale prerequisito, ovvero quello della propria fallibilità, nessuna parola può rammendare lo strappo.
Anche l’intervento di un terzo all’interno di una dinamica ormai tossica e degradata può risultare salvifico. Egli può agire sulla coppia o sul gruppo promuovendo la chiarificazione fra gli individui, oppure può intraprendere un dialogo con una parte soltanto, aiutandola ad elaborare l’accaduto.
La parola non violenta nella psicoterapia: la parola che cura
La parola nella psicoterapia spesso assume questo valore. Essa non cancella ciò che è stato detto (e i suoi relativi effetti dolorosi) ma si rivela fondamentale nel produrre una distanza tra se stessi e la parola squalificante di cui si è stati bersaglio.
La psicoterapia interrompe il circolo vizioso della manipolazione perché permette di riacquistare (o in taluni casi di imparare ex novo) fiducia nel proprio modo di essere, di sentire e di interpretare la realtà. Mettersi in discussione in psicoterapia non vuol dire mai diventare “distruttivi” verso se stessi ma poter guardare anche ai propri errori alla luce della comprensione, in un clima di rispetto.
La violenza verbale non riguarda solo le interazioni fra i singoli o i gruppi. Essa può essere contenuta anche nella cultura promossa dai mass media, nelle tv, nelle università, nei libri e nei giornali.
Non si tratta soltanto della concitata e sensazionalistica trasmissione di contenuti violenti, ma anche di tutta l’ideologia propagandistica a cui siamo esposti senza nemmeno accorgersene.
Imparare a pensare è quindi lo strumento essenziale per difendersi dalla violenza del linguaggio, dalla coercizione che le parole usate senza onestà intellettuale possono esercitare sulla mente.