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Conoscere se stessi: il ruolo dello sguardo dell’altro

De La Tours - Baro con asso di fiori

L'onnipresenza dello sguardo e il suo impatto sulla psiche umana 

Lo sguardo dell’altro non è in alcun modo eliminabile dalle nostre vite: se anche fossimo privi degli occhi lo sentiremmo comunque, seppur con sfumature diverse.

Dal momento che siamo esseri relazionali “guardare ed essere guardati” entra in gioco ogni volta che abbiamo uno scambio rilevante con un nostro simile.

Gli slogan facili tipo “fregatene degli altri” lasciano il tempo che trovano, perché non sono applicabili alla nostra natura, che ci mantiene strettamente in contatto con l’altro.

L’impatto è di intensità variabile sulla nostra psiche: lo sguardo ci può giudicare, ridurre al nostro aspetto esteriore, svilire ecc…oppure accogliere al di là di noi stessi, restituendoci la nostra umanità e persino aspetti di noi che non credavamo essere veri.

Lo sguardo dell'altro ha quindi la potenzialità di elevare il nostro livello di autoconsapevolezza ma anche quella di ingenerare dei blocchi nell'esplorazione autentica del sè.

I due sguardi: la vista e l’occhio della mente

Esiste uno sguardo legato strettamente alla vista (vediamo letteralmente l’occhio dell’altro che ci guarda) e uno sguardo che ci coglie con l’occhio della mente, veicolato per lo più dagli altri sensi (principalmente l’udito e il tatto, che si sostanziano nella parola, nel tono di voce, nel silenzio, nella carezza, nella distanza o nello schiaffo).

Lo sguardo che parte dall’occhio inteso come organo ha un magnetismo più potente ma meno sostanziale dello sguardo che “sentiamo”, anche se esistono occhi così espressivi che sembrano parlare da soli, tramite una lingua misteriosa non costituita da parole.

La vista è il nostro senso dominante, essa impatta su tutto, sull’apprendimento, sul vivere sociale, sul desiderio ecc… Il mondo in cui viviamo è un mondo costituito principalmente da stimoli visivi.

La centralità della visione nella regolazione del funzionamento umano fa sì che anche la percezione che l’uomo ha di se stesso e dell’altro sia basata sull’immagine esteriore: la bellezza, l’eleganza, lo stile, ma anche la performance, il successo, i risultati diventano purtroppo indicatori del “valore” della persona.

L’inganno delle apparenze

Le qualità e le dinamiche interiori, non visibili e misurabili, vengono in tal modo perse, proprio per via della potenza e della superficialità della vista, che si impiglia e si inganna nelle apparenze.

Lo sguardo può degenerare in giudizio, la conoscenza di se stessi e dell’altro si appiattisce su stereotipi e diktat sociali.

Nella società attuale questo meccanismo è esasperato. Le persone sono fortemente condizionate dallo “sguardo laser” degli altri, dei colleghi, dei vicini di casa, dei semplici conoscenti e perfino degli amici più stretti.

Sempre più persone confidano allo psicologo di essere piene di amici ma di non avere nessuno a cui poter disvelare se stessi, per timore di venire giudicati.

La gabbia dell’immagine sociale: conformismo e competizione

L’immagine sociale è tutto, la gente ci si aggrappa, ci si identifica ma nello stesso tempo soffre perché essa diventa una prigione, una gabbia.

Il conformismo è l’effetto più nocivo di questa versione esasperata dello sguardo dell’altro: la persona sente che “deve” corrispondere a quella “cosa” che si aspettano gli altri e finisce per identificarcisi, alienando se stessa, piegando i propri gusti e le proprie scelte, non sapendo più chi è e che cosa vuole.

Oltre al conformismo, alla perdita di identità e alla lacerazione interiore lo strapotere dell’immagine fomenta anche rivalità e competizione con l’altro, così che cooperazione e crescita vengono soppiantate dalla sterile gara per vincere e affermare la propria immagine.

Benessere psicologico e sguardo non giudicante: il ruolo della parola

La futilità e tossicità di questo circolo vizioso devono la loro radice prima nella supremazia che gli occhi e la visione hanno sugli altri sensi.

La conoscenza vera e molta parte del benessere psicologico esistono invece grazie al linguaggio.

Anche le arti visive sono un linguaggio; la differenza fra l’arte mediocre e la vera arte sta nella possibilità di usare il mezzo visivo per esprimere qualcosa d’altro rispetto alla mera cosa rappresentata. La rappresentazione fine a se stessa produce solo idoli, immagini vuote, che non rimandano a nulla se non a loro stessi, nell’autoreferenzialità più assoluta.

La visione artistica è quella che più afferra l’invisibile, non quella che riproduce pedissequamente il reale.

La parola è in antitesi alla vista nella misura in cui sospende l’immagine, la rimaneggia e la trasfigura.

La parola fornisce all’uomo profondità e pensiero, la possibilità di non coincidere con il proprio involucro, il poter evolvere rispetto ai condizionamenti, il poter sanare ferite, il divenire finalmente creativi.

L’ascolto della parola: il suo uso virtuoso in psicoterapia

L’ascolto della parola costituisce un altro tipo di sguardo, accoglie tutto, non detta regole, va al fondo dell’animo.

Può salvare nei migliori dei casi o annientare nei peggiori, perché se non si produce a partire da una messa fra parentesi del proprio Io e delle sue categorie mentali fa ricadere nel vuoto, nell’abisso dei giudizi e delle idee errate su se stessi.

Alcuni occhi sono capaci di ascoltare con lo sguardo, così che sguardo e ascolto diventano una sola cosa, persino nel silenzio di parole.

Come imparare a “resistere” alla pressione (e anche alla seduzione) dell’adeguamento all’immagine vincente e desiderabile per l’altro? Come “accogliere” gli stimoli che vengono da incontri particolari, in cui le maschere vacillano? Come guarire dalla depressione che consegue dal sentirsi schiacciati dalle apparenze?

La psicoterapia offre questa opportunità. A volte purtroppo anche certe psicoterapie o supposte tali si appiattiscono su un mero piano di pregiudizio: ciò accade quando l’occhio del terapeuta è eccessivamente irretito dall’immagine, la propria e quella del suo paziente.

In ogni caso anche la psicoterapia più riuscita non si configura come un percorso semplice, perché l’ascolto e la sensibilità emotiva dell'analista ci portano a soffermarci su parti di noi stessi difficili da diseppellire e da ammettere alla nostra coscienza giudicante (che vorrebbe avere di noi un’immagine unitaria e idealizzata).

Cosa ce ne facciamo poi di quello che abbiamo visto di noi? Riusciamo ad abbandonare le nostre prigioni mentali, stritolanti ma rassicuranti?

Un indicatore infallibile di psicoterapia efficace è, al netto della fatica e dei normalissimi blocchi che si verificano nel percorso, il sollievo e il senso di liberazione conseguenti all’incontro con le parti di noi di cui non eravamo coscienti.

Queste parti, fuoriuscite grazie allo sguardo dell’altro, vengono integrate ed accettate; si finisce per piacersi di più, per chi si è e non per chi si dovrebbe essere.

Stadio dello specchio, Aiuto psicoterapeutico