La pazza gioia
Nel film “La pazza gioia” di Paolo Virzì troviamo una fine e a tratti poetica rappresentazione in linguaggio cinematografico di un concetto chiave della psicoanalisi: la dipendenza del disagio psichico dallo sguardo non guardante e rifiutante dell’Altro. La malattia mentale non è banalmente frutto di una predisposizione genetica tout court: una vulnerabilità di base viene esasperata in maniera esponenziale dall’assenza di amore incondizionato da parte dell’Altro familiare, dalla carenza di un Sì! senza “forse” alla venuta al mondo del soggetto.
Il film è fondamentalmente la narrazione della storia di un’amicizia fra due donne, Beatrice Morandini Valdirana e Donatella Morelli. Sono caratterialmente e socialmente diversissime, addirittura agli antipodi (l’una istrionica aristocratica, l’altra introversa proletaria) ma con qualcosa in comune. Sono sole al mondo, perse, psichicamente malate, lasciate cadere dalle figure che avrebbero dovuto proteggerle e tollerarle nelle loro debolezze ed eccentricità.
Il finale chiarisce bene come sia questo il punto, l’unica cosa che conta: l’amore che cura. Grazie al riconoscimento, ad atti rivelatori di un interesse autentico dell’una verso l’altra, è possibile arrestare la distruzione, immaginare un futuro che non sia di morte e di rivendicazione rabbiosa. E dunque accettare il percorso terapeutico all’interno della comunità psichiatrica in cui si erano conosciute e da cui erano evase alla ricerca della “pazza gioia”, della libertà assoluta e senza limiti.
Il movimento che si produce durante i pochi giorni di fuga e di condivisione umana è dunque vertiginoso: le due protagoniste, inizialmente passive rispetto alle cure e dominate dalla pulsione di morte, si trasformano in soggetti attivi, che decidono di lasciarsi aiutare, di sottoporsi volontariamente alle limitazioni che ciò comporta.
La comunità psichiatrica, sulle prime identificata all’ennesima costrizione (la prima originariamente patita nei rapporti familiari) diventa il luogo in cui è possibile riconciliarsi con l’Altro, sperimentare un nuovo rapporto con l’alterità non più solo all’insegna del rifiuto e della fuga disperata.
Durante il loro singolare viaggio Beatrice e Donatella sperimentano numerose avventure, non tutte esaltanti. Momenti di leggerezza si alterano a stati di profondo sbandamento e crisi. Ma attraverso questa condivisione piano piano vediamo nascere un legame, un “noi”, una compartecipazione emotiva, un’uscita dai propri egoismi, come un delicato fiore. Dopo una drammatica separazione segue un decisivo riavvicinamento che testimonia la sopravvivenza di questo germoglio alla tempestosa distruttività dei rispettivi squilibri.
Gli squarci aperti sulle reciproche situazioni personali, l’incontro con la dimensione più intima della storia dell’altro non rimangono semplici parentesi ma toccano davvero. Beatrice, la dominante, la donna di mondo, sfrutta le proprie conoscenze e risorse economiche per fare qualcosa di concreto per aiutare l’amica. Le permette di esaudire un desiderio rimasto inascoltato da tutta la macchina giudiziaria di cui Donatella è prigioniera: poter vedere il figlio anche solo per una volta, il figlio portatole via dopo un tentativo di suicidio (o più precisamente “tecnicamente” omicidio-suicidio).
Ecco lo sguardo dell’Altro, l’amore che cura, la gratuità del riconoscimento: Beatrice vede l’altra, la vede davvero, al di là del suo sembiante poco rassicurante, dei tatuaggi e dei modi ruvidi. E per la prima volta, nella sua vita costellata di abbandoni e indifferenza, Donatella riceve un dono che si rivelerà decisivo per spingerla a risollevarsi.
Ma la bellezza del rapporto che si crea sta nella reciprocità: anche la timida Donatella vede la ferita della teatrale Beatrice. Conosce la madre dell’amica, ne ascolta in silenzio le invettive, la freddezza, la mancanza di pietà..
La magia del linguaggio cinematografico qui si manifesta potentemente: ci fa intuire, senza che vengano verbalizzati, i pensieri di Donatella. Anche sua madre era apparsa sulla scena, e si era espressa nei sui confronti in un modo molto simile. Nella completa assenza e lassismo dei padri, entrambe le madri svalutano senza mezzi termini le figlie, condannano i loro disagi senza tentare di decifrarne il senso e di domandarsi quali siano le loro responsabilità di madri in tutto ciò. Le trattano come esseri deficitari, come pesi, forse scontente di non aver più qualcuno su cui riversare le loro frustrazioni.
Così quella che si profila come una “bravata”, una fuga verso una libertà senza vincoli e senza un domani, si trasforma in un vero e proprio incontro esistenziale, capace di cambiare due destini. Non si sa quanto e come le due donne recupereranno, il finale lascia però presagire un nuovo inizio, la possibilità di ripartire pur nella devastazione. Nel deserto appare l’oasi della speranza.