Anoressia – bulimia. Amare non è dare ciò che si ha!
Le caratterisitche tipiche dell'anoressia - bulimia e le dinamiche relazionali disfunzionali all'interno della famiglia
L'anoressia – bulimia si configura come una forma di sofferenza tipica del sesso femminile e dell’età puberale. Essa si lega nella quasi totalità dei casi alla percezione di una carenza d’amore. Sono quindi tre gli elementi che la caratterizzano: il sopraggiungere al termine dell’infanzia, il riguardare elettivamente la femminilità e l’essere collegata ad una problematica nella relazione affettiva con i genitori. Le dinamiche disfunzionali di natura familiare escludono la possibilità del confronto verbale e dell'emancipazione da una posizione passiva, lasciando al sintomo anoressico bulimico l'unica chance di parlare, di essere cioè il portavoce di un disagio inesprimibile e di una volontà di separazione dall'altro. Mangiare niente per Essere costituisce la logica sottostante al problema alimentare.
Le dinamiche relazionali familiari "normali"
Normalmente i genitori, per un bambino, incarnano le prime figure d’amore. Sono tutto per lui, sono esterni ma nello stesso tempo forgiano e popolano il suo mondo interno.
Sia i maschietti che le femminucce hanno come primissimo oggetto di amore la madre. Si tratta di una relazione totalizzante, simbiotica, che via via si allenta grazie all’intervento di qualcosa che distoglie la mamma dal suo interesse esclusivo verso il figlio.
Di solito questa funzione di regolazione delle distanze e di separazione è svolta dal padre, verso cui la madre nutre un desiderio di donna. Se nella coppia circola amore, desiderio e stima reciproca i figli sono salvi dal compito di dover ricompensare i genitori delle loro frustrazioni d’amore, sono cioè liberi di poter avere dei loro desideri. Essi così sperimentano l'essere amati incondizionatamente per quello che sono e non per quello che ci si aspetta da loro.
In queste situazioni fortunate in famiglia si respira desiderio, calore, rispetto; la mamma parla bene del papà di fronte ai figli e la stessa cosa fa lui. Quando sopraggiunge la pubertà i ragazzini possono iniziare a giocare la partita con l’altro sesso senza vivere in modo traumatico schermaglie e delusioni amorose.
Quando l'amore nella coppia non è sano: il peso che grava sui figli
Ma cosa accade se questa azione di separazione simbolica tra madre e figlio operata dal padre non avviene? Cosa accade se nella coppia non circola amore o se i genitori si odiano (apertamente o meno)?
Il figlio molto spesso si ritrova incastrato in una relazione esclusiva e soffocante con la madre. Soprattutto le bambine, a differenza dei maschietti, hanno bisogno di lasciare la madre come primo oggetto di amore per rivolgersi al papà.
Questi tuttavia, proprio in virtù del rapporto conflittuale con la compagna, può risultare freddo, assente, non disponibile per la figlia. O al contrario la elegge a sua partner ideale, in ogni caso risultando fuori misura sia nell’assenza che nella presenza.
Il risultato è un eccesso di madre, un perdurare di un rapporto in cui la bambina si trova a dover tappare le carenze del padre, a dover essere ciò che la madre vuole o di cui ha bisogno. In questo modo ella non può beneficiare del potere equilibrante dato dall’intervento paterno. Vede la mamma criticare aspramente papà e svalutarne la figura. Percepisce l'infelicità materna e si sente così chiamata a colmarla, con comportamenti compiacenti da brava bambina.
L’amore non si manifesta più come un dono gratuito ma si concentra sulla sfera pratica della soddisfazione dei bisogni in una relazione all’insegna della simbiosi e della fusionalità. Amare diventa un’amministrazione, un dare all’altro ciò che si ha. Si ama attraverso il fare, il dare per avere in cambio. Si rompe la gratuità dell’amore, quel filo sottile e invisibile che lo psicoanalista Jacques Lacan definisce come “dare ciò che non si ha”, donare la propria mancanza, donare ciò che non si possiede, donare se stessi.
L'anoressia bulimia come tentativo di separazione dall'altro troppo richiedente
L’anoressia- bulimia insorge proprio nella pubertà perché è il momento in cui si è chiamati per la prima volta a fare a meno dell’altro e a cavarsela da soli con il proprio desiderio.
In questo scenario essa assume un senso, appare un tentativo di separazione, un modo per far fronte alla situazione. Ma finisce per farlo utilizzando lo strumento del cibo, dunque ancora una volta attraverso lo schema della dipendenza dalla pappa della madre. Da un lato si rifiuta la logica del dare a cui si è sottoposti ma nello stesso tempo si ricorre al cibo, che rientra alla fine a pieno titolo nel campo degli oggetti di scambio.
Anoressia e bulimia rappresentano così due facce della stessa medaglia.
La bulimica da una parte riduce la carenza d’amore che sente dentro di sé al vuoto nello stomaco. Cerca di colmarla attraverso abbuffate smodate alle quali segue invariabilmente il vomito, testimonianza dell’insufficienza di qualsiasi quantità di cibo nel far sentire appagati. Il vomito illustra il fatto che nessuna cosa può sostituire la sostanza dell’amore, non concretizzabile in oggetti. La mancanza abita strutturalmente l’uomo e non si può azzittire con gli oggetti.
L’anoressica invece cerca, rifiutando il cibo, di rendersi invulnerabile rispetto alla frustrazione d’amore. Tenta di anestetizzarsi, di sottrarsi alle delusioni e alla sofferenza che sente dentro, come se questo fosse possibile! Per l’essere umano infatti è impossibile aggirare la mancanza, la frustrazione, la castrazione, la sofferenza. Vivere significa avere a che fare con tutto questo.
La psicoterapia dei disturbi alimentari
La psicoterapia dunque cercherà di sganciare dalla ripetizione la ragazza invischiata in tale circolo vizioso. Ma non accanendosi sul fatto che mangi, non cercando di toglierle il sintomo e quindi l’unico modo che ha di esprimere il suo malessere.
In terapia si cerca sempre di intercettare la vera origine della sofferenza. Spesso otturata da sensi di colpa, dalla spinta alla performance, dal vivere non per se stessi ma per l’altro.
Si tratta allora di riaprire una dimensione personale, soggettiva, al di là delle attese altrui.
In questo modo di fatto si contrappone la vita, intesa come creatività personale, alla morte, vista come schiacciamento da parte dell'altro.
Il sintomo anoressico bulimico non serve più quando la ragazzina si riappropria di se stessa, si piace e si apprezza nuovamente per quella che è.
Inoltre i sintomi alimentari scompaiono quando non è più necessario mettere in scena la sofferenza attraverso l'evidenza di un corpo malato e vicino alla morte.
E ciò avviene grazie alla forza espressiva che si riacquista in terapia, luogo in cui si viene visti non per come si appare ma per ciò che si ha da dire.