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La paura del giudizio degli altri: da dove deriva e come uscirne?

Dipinto di Sibilla Ulivi di fondale marino con banco di pesci

L’ansia e il ruolo dell’immagine tra perfezionismo e spinta conformistica

Una fonte di sofferenza psicologica che osserviamo come fenomeno dilagante soprattutto in questi ultimi anni è la paura del giudizio degli altri, paura che può arrivare a condizionare in maniera pesante l’umore, il pensiero e la condotta.

Questo tipo di ansia è ricorrente nei discorsi di moltissimi soggetti in analisi: essa presto o tardi salta fuori, svelando non solo la centralità che l’immagine ha nella definizione di sé, ma pure l’impossibilità di esserne fieri e soddisfatti. Anche l’immagine più splendente e di successo non è mai abbastanza, non dona pace e sicurezza.

Il problema di come l’altro ci vede e di che cosa pensa di noi, di per sé connaturato all’uomo in quanto essere sociale, non ha la stessa origine e lo stesso significato per tutti.

Esso può essere frutto di un’esagerata autocritica, cioè di un Super Io feroce che critica il Sè e poi attribuisce tale biasimo all’altro, oppure può derivare da un vuoto di identità, che si cerca disperatamente di colmare attraverso il mimetismo e il conformismo.

Le opzioni terapeutiche nei due casi differiscono; nel primo si tratta di riconoscere e addolcire la voce interiore giudicante, mentre nel secondo, laddove possibile, appare necessaria un’opera di scoperta e di valorizzazione del vero sé.

Il giudice interiore: quando l’autocritica è distruttiva

Se svolgere dell’autocritica è un pregio e un’attitudine importante per affinarsi ed evolvere come persone, essere eccessivamente aspri con se stessi può nascondere un vero e proprio odio nei confronti della propria immagine, da intendersi non soltanto come immagine esteriore ma anche come complesso di tratti caratteriali e sociali.

In genere chi è ipercritico nei confronti di se stesso va incontro o a un’intensificazione della performance, secondaria al tentativo costante di migliorarsi, oppure al contrario ad una paralisi su tutti i fronti, “tanto ormai sono una causa persa”.

Entrambi questi approcci risultano fallimentari nell’elevare l’immagine di sé, nel primo caso perché l’asticella viene continuamente elevata in un circolo vizioso stressante per cui “non basta mai”, nel secondo perché il “tanto ormai” lascia spazio a lamentazioni infinite che amplificano sempre di più il senso di inadeguatezza.

In queste situazioni, apparentemente opposte, si annidano vissuti depressivi e talvolta persino quadri di depressione clinica conclamata.

Alla base ritroviamo contesti familiari o scolastici in cui, durante lo sviluppo psico affettivo, si è fallito nell’aiutare il futuro adulto a costruire una solida autostima.

Da un lato si è insistito troppo sul valore della performance e dell’eccellenza, dall’altro si è valorizzato il “bambino ideale” anziché quello reale. Il confronto con questa entità sfuggente, presente nel desiderio dei genitori, porta a sentirsi inadeguati e in perenne concorrenza, come in una gara in cui per quanto ci si dia da fare si finisce sempre con l’essere perdenti.

Può inoltre succedere che la difficoltà del bambino venga “fissata” da un atteggiamento fatalistico, sminuente o, ancor peggio, negazionista rispetto ai suoi limiti e dunque iper protettivo. La crescita viene così influenzata o dall’idea di non valere proprio nulla, oppure da una scarsa messa a fuoco di sé stessi, frutto della negazione dell’esistenza di un problema. Entrambe le situazioni portano a dispercezioni dell’immagine di sè.

Il confronto con la realtà è durissimo sia per i bambini “super” che per quelli più in difficoltà. Crescendo essi non riescono ad autonomizzarsi dalla famiglia, a trovare nel gruppo dei pari una corrispondenza tra l’immagine di sé sviluppata a casa e quella che viene rimandata dall’ambiente esterno. O “troppo adulti” o “troppo bambini” essi si ritrovano perennemente fuori posto.

Il vuoto di identità: il falso sé

L’altra dinamica che conduce verso la svalutazione di sé da adulti e la conseguente, cronica preoccupazione del giudizio degli altri, consiste nello sviluppo di un “falso sé” compiacente ed “iper normale”, costruito per compensare l’assenza di carattere e di personalità.

In genere questo vuoto d’identità è favorito da ambienti familiari poveri di valori e di attitudine al pensiero. I bambini crescono senza avere un’idea di che cosa sia un essere umano e di che cosa sia il mondo al di là dell’egoismo e del consumismo che permeano la società e ispirano la condotta dei genitori. In questi contesti esiste solo la facciata sociale, la ricerca di gratificazioni e la tutela dei propri interessi.

In queste famiglie si vive adeguandosi alle mode, al così fan tutti, al “è così perché è così”, inibendo nei soggetti in fase di sviluppo la possibilità di imparare a porsi delle domande e di costruire un solido senso di sè e delle cose.

La vita viene vissuta in maniera passiva, con una modalità acefala e conformista. Essa si riduce nell’ adeguamento ad un sistema. Ad esempio se nel gruppo di riferimento si fa del male si rifarà del male, se invece si fa del bene si rifarà del bene, in ogni caso senza capire cosa si fa e perché lo si fa. L’imitazione è il vero “driver” di queste personalità vuote, totalmente permeabili all’immagine degli oggetti con cui entrano in contatto.

Le opzioni terapeutiche: la riscoperta della gentilezza e del vero sè

Un antidoto allo strapotere dell’immagine e dei suoi effetti distruttivi nei confronti della salute, della freschezza e dell’originalità del sé è fornito senza dubbio dalla psicoterapia, esercizio di una parola che non castra, non giudica, ma con gentilezza cerca di portare alla luce l’unicità e la dignità di ogni esistenza.

L’approccio curioso e rispettoso tipico del contesto terapeutico viene piano piano “introiettato”, ovvero fatto proprio. Questo fenomeno accade aldilà della volontà cosciente, appare frutto di un lento lavoro di adattamento da parte dell’inconscio ad un nuovo “ambiente psichico”, che ha caratteristiche diametralmente opposte a quelle a cui si è stati esposti fin da piccoli.

Si scoprono così letteralmente nuovi mondi, ovvero nuove modalità di concepire l’esistenza. Al fondo si potrebbe dire che si scopre il valore della “differenza”. Non più la necessità imperiosa di essere “come” gli altri, condannandosi all’infelicità perenne e alla competizione incessante, ma la gioia e il piacere di essere diversi, essere se stessi, piaccia o meno agli altri.

Le persone spesso avvertono con stupore di riscontrare più successi sociali e relazionali una volta che si sono liberate dai complessi e dal desiderio di piacere.

Diverso è il discorso quando la problematica è di natura conformistica nel senso del “falso sé”. In questi casi il lavoro terapeutico va a stimolare l’unicità delle caratteristiche individuali, rimaste nascoste all’autopercezione ma ben visibili allo sguardo del terapeuta, allenato a ricercare ciò che distingue piuttosto che ciò che uniforma.

Stimolare l’unicità della persona significa aiutarla a sviluppare un pensiero proprio, partendo da ciò che già c’è e non da ciò che dovrebbe esserci.

Il terapeuta si pone come uno strumento che facilita il contatto con se stessi, con i propri pensieri e le proprie emozioni che non hanno ancora dei contorni chiari, perché azzittite, distorte e talvolta violentate dal flagello dell’imitazione e dell’adeguamento “al così fan tutti, al è così perché è così”.

Male oscuro, Aiuto psicoterapeutico , Ansia da prestazione, Ansia patologica