Perché lo spot della pesca lascia perplessi
Per pubblicizzare i suoi servizi e prodotti un supermercato realizza un cortometraggio che ha per protagonista la dolorosa esperienza emotiva di una bambina alle prese con la separazione dei genitori.
La trama, la narrazione e le opinioni
Questa bimba, mentre la madre sta facendo la spesa, si allontana un attimo da lei per prendere una pesca da un bancale che espone la frutta. La consegna poi al padre non appena inizia il tempo stabilito in sua compagnia. Gli dice che si tratta di un dono da parte di mamma. Il padre intuisce rapidamente il desiderio della bambina e per farla felice le dice che chiamerà mamma per ringraziarla. La bimba finalmente sorride, così “non c’è una spesa che non sia importante”.
Le opinioni si dividono, a qualcuno la storia piace mentre qualcun altro storce il naso. C’è chi nella mossa pubblicitaria ci vede un messaggio reazionario e conservatore (antidivorzista e celebratore della famiglia tradizionale) e chi si gode lo spot sul piano puramente rappresentativo (la semplice descrizione di una delle possibili realtà del vissuto di un bambino figlio di separati).
La storia di per sè non è particolarmente originale o sconvolgente. Una bambina patisce il divorzio dei giovani, belli e ricchi genitori (l’ambientazione è decisamente borghese). La piccola guarda nostalgicamente le famiglie felici che vede per strada e sogna un possibile ricongiungimento fra mamma e papà.
Anche la narrazione è congrua al contenuto e sul piano del confezionamento estetico non spicca per vivacità; la mimica degli attori, le inquadrature e la costruzione complessiva sono piuttosto piatte. Si punta tutto sugli occhioni pieni di aspettative della bimba, riproposti più volte. Pure il velo di algida tristezza materna e la compostezza del giovane papà risultano un po’ finti.
Ma è questione di gusti, infondo da uno spot pubblicitario (anche quando opta per un format più sofisticato) non ci si può aspettare troppo.
La presenza o meno di un messaggio politico non emerge dal cortometraggio in sè, anche se il binomio cibo-famiglia fa parte di un immaginario collettivo a cui evidentemente si strizza l’occhio. L’accento sulla famiglia divisa e infelice è innegabile, e non solo per il punto di vista della bambina.
I genitori non sono rappresentati come figure energiche e solari. A parte un brevissimo ma doveroso accenno alla quotidianità fra madre e figlia, che include anche il gioco e il sorriso, i toni di voce, la postura, la mimica e perfino i colori scelti sono spenti, scelti per evocare sensazioni tristi.
Quindi pensare che si tratti di una “neutrale“ esposizione di una delle possibilità a cui va incontro la famiglia divisa non regge molto.
Il cibo (e l’esperienza nel supermercato in quanto tale) infatti è il vero oggetto della pubblicità e pubblicizzato così appare come lo strumento che “fa famiglia”, il tramite per la ricomposizione del quadro rotto.
La pesca non ha alcuna densità metaforica, nessun valore simbolico particolare all’interno della narrazione. Come elemento preso a se stante la pesca può avere tutti i significati del mondo ma, inserito così nel plot, li perde completamente.
Perché proprio la pesca e non una pera o un pomodoro per lo scopo della bambina? Forse che la pesca è il frutto di stagione a disposizione durante le riprese del cortometraggio (uscito a settembre)?
Il prodotto è la cura dell’anima?
La vera perplessità che questa pubblicità suscita sta quindi non tanto nel suo discutibile valore estetico o nei più o meno velati messaggi politici.
La sensazione di confusione nata nella mente di molti nasce dall’associazione della vendita di un prodotto di consumo con l’intima sofferenza di una bambina.
Perché per vendere il suo marchio un rivenditore di cibo si permette serenamente di far leva su un immaginario simile?
Non c’è in questa “rappresentazione”blasonata della sofferenza un oblio di ciò che questa sofferenza “significa” veramente?
In questo modo la “famiglia di separati” viene spettacolarizzata e, come in ogni spettacolarizzazione, diventa alternativamente un oggetto da compatire o un oggetto “cool”, tipico della Milano da bere (di cui anche il supermercato in centro fa parte)
Il video di per sè, se non fosse collegato al supermercato, potrebbe suscitare dei dibattiti sul tema dell’impatto della separazione sulla psiche dei bimbi (al netto delle sue deficienze stilistiche e delle sue evidenti carenze).
Ma il dibattito su cosa vertirebbe dato che alla fin fine siamo di fronte al trito e ritrito schema pubblicitario che attribuisce al “prodotto di marca”il potere di rendere felici, addirittura di far tornare il sorriso a una bimba “senza” famiglia?
La ricercatezza del format, il cortometraggio anziché lo spot, devia lo spettatore e lo confonde con sentimentalismi, accenni sociologici e ambientazioni glamour.
Sotto tutta questa inutile presentazione e questo fumogeno il messaggio è sempre lo stesso: compra da noi, compra e sarai felice, compra e persino tua figlia, se non lo è, lo sarà.
Lo spot non a caso inscena il quadretto tipico di una famiglia di separati: con le separazioni in aumento l’industria pubblicitaria deve adeguarsi, deve produrre identificazioni per non lasciarsi sfuggire un’interessante fetta di mercato.
Tuttavia vedere così strumentalizzato a fini commerciali un tema delicato e complesso come quello della rottura del legame familiare mette un po’ di tristezza.
Non è sempre vero che una separazione produce bimbi necessariamente infelici, come lo spot sembra suggerire con il suo immaginario stereotipato.
Ma lavorare nel campo della salute mentale insegna che l’attraversamento di un dolore accompagna ogni separazione, anche quella più sensata e augurabile per il benessere di ogni membro della famiglia.
Non è infrequente che siano i bambini stessi a sperare che i genitori si separino. Serenità e benessere sono possibili anche dopo, non però senza l’elaborazione di un lutto e il passaggio nel territorio della sofferenza.
Lo sguardo della bimba colpisce perché nel mood artefatto del cortometraggio ha qualcosa di vero.
Peccato che sia l’oggetto di consumo a riaccenderlo. Peccato che il dio mercato si proponga e venga passivamente accettato come rimedio e come cura di ogni male dell’anima.