L’indecisione fra normalità e patologia
L’indecisione è un fenomeno che può sottendere diverse logiche: non tutti i pensieri e i comportamenti contraddittori hanno alla base la stessa dinamica psicologica e non tutti gli atteggiamenti di dubbio e incertezza sono da considerare in senso patologico.
L’indecisione non patologica
La titubanza “normale” la si riconosce per due aspetti, la sua ragionevolezza e transitorietà.
Un tentennamento risulta infatti comprensibile quando la posta in gioco di una decisione è particolarmente alta o le circostanze in cui essa richiede di essere presa non sono del tutto chiare e leggibili.
Prendere tempo in questi casi è un atteggiamento virtuoso, perché permette alla riflessione profonda di dispiegarsi. Ogni analisi penetrante e non superficiale, sia essa di motivi interiori o di fatti esterni, implica appunto una quota di tempo per comprendere ciò che si vuole e ciò che sta realmente accadendo, al di là dell’apparenza.
Ma ondeggiare rientra nel campo della normalità non soltanto per la sua opportunità rispetto a situazioni complesse; l’indecisione quando non è patologica dura effettivamente un periodo limitato di tempo, non si protrae all’infinito e infine si scioglie, dando luogo a prese di posizione ferme e risolute, non passibili di venire nuovamente messe in discussione.
A questo livello, a seguito dell’analisi dei singoli elementi da prendere in considerazione segue sempre la sintesi, ovvero la visione complessiva del tutto (una specie di “succo” estratto dal lavoro mentale di spremitura).
L’azione completa il processo decisionale, così che essa rompe la stasi e rivela chiaramente la posizione e l’intenzione di colui che fino a quel momento pareva restare sospeso fra più possibilità.
L’atto decisivo e risolutivo che segue a un periodo determinato di tempo di riflessione è dunque un chiaro indice di salute psichica.
L’indecisione cronica
Ma cosa succede invece in caso di indecisione cronica? E quali scenari si nascondono dietro al comportamento indeciso?
La perplessità e l’esitazione che si protraggono all’infinito non sono facilmente individuabili perché esse rientrano frequentemente all’interno di “cicli”: esse danno luogo ad atti che solo apparentemente chiudono definitivamente la questione.
In realtà questi atti, queste prese di posizione non sono definitive ma concludono solamente un ciclo, al termine del quale riaffiora un motivo contrario alla decisione presa e con esso il tentativo di cancellare l’atto compiuto.
Ma tale apparente “ravvedersi” non significa ancora nulla di definitivo: una volta revocato l’atto i dubbi riaffiorano nuovamente, facendo precipitare di nuovo nel vortice delle motivazioni contraddittorie.
Gli ambiti in cui l’indecisione mostra il suo lato più invalidante sono quelli sentimentale e lavorativo.
Un uomo o una donna possono nutrire dei dubbi nei confronti del partner; tuttavia dopo averlo lasciato si rimangiano la decisione presa, per poi iniziare da capo a coltivare perplessità e ruminazioni senza fine.
Stesso discorso vale per l’ambito lavorativo: il lavoro non convince fino in fondo e tale perplessità spinge a cercarne un altro. Tuttavia una volta ottenuta un’offerta da un altro datore di lavoro essa viene rifiutata, senza che ciò plachi l’insoddisfazione.
Un meccanismo classico di questo tipo di oscillazioni è il “rendere non avvenuto”, detto anche “annullamento”. Si tratta di meccanismi psicologici utilizzati per “cancellare” le conseguenze di un’azione, bollata come impulsiva.
L’ impulsività apparentemente connota questi quadri di dubbio patologico, in realtà il problema non sta nell’agire senza pensare ma nell’impossibilità di assumersi la responsabilità di ciò che si vuole davvero.
La volontà è il vero malato degli indecisi. Essa si ammala per un eccesso di razionalità e di adeguamento alle attese sociali e relazionali.
Anche la paura fa ammalare la volontà: paura di deludere, paura di perdere il controllo, paura di perdersi, paura di cadere in rovina, paura di non capire la differenza fra un capriccio e un bisogno profondo, paura di non capire ciò che si ha dentro, paura del fallimento, paura della solitudine ecc…
Le persone indecise non lo sono per gli stessi motivi e le stesse identiche paure, ma in ognuna di esse si annida uno sdoppiamento netto e precocemente instituito fra “essere” e “dover essere”.
Gli indecisi al fondo non si conoscono, non sanno chi sono veramente. Si conoscono attraverso le parole degli altri, parole che gli hanno segnati fin da bambini e alienati da loro stessi.
Così due “personalità” si agitano in loro, quella retta, responsabile, in linea con le aspettative dei genitori e della società e quella più autentica e spontanea, legata a un genuino e personale sentire, giudicata però come sconsiderata e “sbagliata”.
Tutti gli esseri umani per vivere in società in qualche modo sottostanno a questo meccanismo e devono rinunciare a una libertà totale: è se vogliamo la maledizione dell’uomo civilizzato, che ha barattato un po’ della sua forza vitale con la sicurezza del gruppo e dell’approvazione sociale.
Eppure per maturare e diventare davvero uomini o donne che si realizzano pienamente (e non restare al livello di bambini compiacenti ma fragili e ondivaghi) tutti gli esseri umani hanno il compito di recuperare se stessi, di vivere anche in accordo con la loro parte viva e spontanea, senza sacrificarla troppo sull’altare del buon senso, dell’arido conformismo e delle paure.
Il ruolo della psicoterapia
La psicoterapia che in questi casi può dare davvero un contributo importante nello scioglimento dei sintomi costituisce un percorso tendenzialmente lungo.
Questo perché il fattore tempo contribuisce alla fissità del comportamento patologico, che non può dunque essere affrontato a partire dalla fretta e da un forzare le difese (pena un loro rinforzo e una chiusura psichica).
Il fattore tempo, al netto di peggioramenti, stalli e fissità sintomatiche durante lo svolgersi della terapia, permette di rilassarsi e allargare il discorso dal problema contingente al complesso della vita psichica.
Si creano così le condizioni perché possa rivelarsi e uscire allo scoperto l’autenticità della persona, la sua vera sofferenza di fondo, la vera paura, il vero dubbio su di sé.
Ha valore quello che sento, quello che vedo e come lo vedo io? Posso fidarmi di me stesso? Posso osare?
Lo spazio di libertà garantito da un terapeuta non giudicante ha delle potenzialità enormi di cura, quando il curante non imbriglia il suo assistito in definizioni, forzature o suggerimenti che riecheggiano e ripetono gli antichi condizionamenti patiti.
Accedere a un’azione libera e non condizionata è sempre possibile, a qualsiasi età e in qualsiasi condizione esistenziale.
Alleggerirsi dalla propria specifica paura apre le porte non solo a un buon livello di soddisfazione e autenticità, ma anche alla responsabilità e alla forza di portare avanti scelte non popolari, non consuete, non nei canoni ma “giuste” per se stessi.
Idee fisse, Aiuto psicoterapeutico