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Hikikomori o semplice atteggiamento solitario?

Restare molto tempo a casa, soprattutto da ragazzi, può essere interpretato come il sintomo di un disagio relazionale di cui preoccuparsi.

Oggi si parla molto degli “hikikomori”, giovani (e meno giovani) che vivono nella casa di famiglia senza uscirne mai e senza porsi nessun obiettivo sociale o lavorativo.

Diventa quindi importante distinguere due condizioni che apparentemente condividono alcuni aspetti della condotta ma che nel profondo restano non accostabili.

Il giovane (ma anche l’adulto) che passa molto tempo da solo, magari studiando o dedicandosi ai suoi hobby preferiti, non necessariamente esprime un comportamento patologico.

Introversione e atteggiamento solitario 

L’introversione in genere porta a prediligere attività solitarie, che comportano molte ore di apprendimento ed esercizio. La soddisfazione la persona introversa la raggiunge in primis immergendosi in se stessa, il che tuttavia non significa che non avverta dei bisogni di relazione, di amore e di amicizia.

Spesso l’introverso in situazioni sociali “standard” si annoia, ha la sensazione di perdere tempo ed energie. Essendo molto creativo e bisognoso di stimoli mentali l’inattività e il prolungamento dei discorsi necessariamente “leggeri” tipici della socialità lo spengono.

Inoltre la propensione al pensiero, dunque all’ascolto e all’osservazione più che al “tenere banco” nelle situazioni chiassose tipiche delle uscite in gruppo ingenerano facilmente sovraccarichi sensoriali, inducendo stanchezza.

Il disagio relazionale tipico dell’introverso  nel rapporto duale tende a sparire, mentre già in un piccolo gruppo si rende evidente.

Se però gli amici sono persone di cui si fida e che gli vogliono davvero bene egli “sopporta” di buon grado i disagi  che la socialità arreca.

Anzi, se il clima relazionale è buono e gli amici sono inclusivi egli può persino lasciarsi trasportare dall’atmosfera festosa, risultando divertente e simpatico.

Al contrario se l’ambiente è tossico e i discorsi sono improntati esclusivamente al parlare male degli altri o al parlare di se stessi in maniera monologica e autoreferenziale il soggetto introverso può patire al punto tale da ritirarsi dalle uscite dopo un periodo di sforzi e di sopportazione.

La constatazione della superficialità e dell’ assenza di interesse genuino nelle amicizie intristisce facilmente, portando a chiusure e tagli definitivi.

Durante la giovinezza questa dinamica di frustrazione e conseguente fuga può far ritrovare senza punti di riferimento, incentivando la chiusura in casa e il proseguimento di attività solitarie a discapito delle feste e della leggerezza che ci si aspetta negli anni giovanili.

I ragazzi più forti caratterialmente sono in grado di sopportare la loro particolarità senza deprimersi eccessivamente, senza scivolare cioè verso la deriva di un ritiro totale dalla scena del mondo.

Dei punti di riferimento amicali vengono conservati, così come non vengono meno i desideri di integrazione sociale. La vita “casalinga”non coincide con una fuga tout court dal mondo, così che la scuola, gli impegni universitari o il lavoro non sono abbandonati. Anche gli sport o altre attività fuori dalle quattro mura di casa sono portate avanti con interesse e impegno.

I problemi relazionali che si possono incontrare in università o sul posto di lavoro non sono causa di interruzioni brusche senza che vi sia la ricerca di un’alternativa più confacente alla propria personalità.

Lo stile di vita di questi soggetti è semplicemente diverso rispetto a quello di massa (che prevede cene, aperitivi, feste, uscite di gruppo, discoteche ecc…) e include una socialità più tranquilla e limitata, all’insegna del “pochi ma buoni”.

Hikikomori e ritiro sociale patologico 

Diversa è la condizione dei cosiddetti “hikikomori”, ragazzi o giovani adulti che rinunciano totalmente a studiare o a lavorare, vivendo di fatto reclusi nelle proprie abitazioni.

Questo fenomeno è quello davvero preoccupante, e rappresenta una condizione in cui può scivolare  l’introverso ipercritico narcisisticamente fragile, soprattutto quando è invischiato in rapporti familiari disfunzionali.

Un evento scatenante (un rifiuto, una bocciatura, un’incomprensione o un litigio) in genere precede il ritiro e fa precipitare nel baratro dell’abulia. Chiaramente il tutto avviene sullo sfondo di problematiche di vecchia data rimaste inaffrontate.

Là dove si instaurano ritiro e disimpegno da qualsiasi attività fuori casa in favore di un vivere “murati” fra le quattro pareti si può parlare di vera e propria depressione (escludendo gli scompensi psicotici di natura schizofrenica).

La depressione spesso non è avvertita pienamente  dall’ambiente familiare. Nelle famiglie in cui si verifica la tragedia di un giovane che si chiude totalmente alla vita si osserva frequentemente una dinamica profondamente ambivalente.

Si tratta per lo più di figure genitoriali prive di qualsiasi sensibilità o cultura psicologica, che da un lato iper proteggono il figlio ostacolando la sua autonomia, dall’altro fin dall’infanzia lo tormentano con sensi di colpa ogniqualvolta egli non raggiunge l’eccellenza o risultati ragguardevoli.

I ragazzi che crescono in questi contesti sono  a rischio di non sopportare il fallimento e di restare schiacciati sotto il peso del genitore onnipotente e capriccioso, che confonde e lega in un rapporto di dipendenza.

Meglio allora il rifugio in un mondo virtuale, magari dietro allo schermo di un computer, che illude rispetto alla coincidenza con l’immagine ideale (irraggiungibile nella concretezza dei rapporti e delle cose umane).

Si crea così una situazione contorta, per cui il genitore che ha soffiato sulle insicurezze del figlio ora d’improvviso ne pretende la maturità  (che con tutti i mezzi ha ostacolato). Non riuscendo a modificare il comportamento di rifiuto del figlio tramite l’autorità, decide allora che si tratta di una “causa persa” e lo etichetta come malato cronico che dipenderà sempre dalle sue cure.

Il ruolo della psicoterapia 

Gli hikikomori sono difficili da raggiungere dai servizi psicologici  per iniziare dei percorsi psicoterapeutici proprio per via di questo impasto malato con i loro care givers.

Se il genitore chiede aiuto è raro che sia davvero  interessato a mettersi in discussione. Si aspetta una soluzione della situazione che però lo lasci fuori da un coinvolgimento profondo.

I genitori più illuminati ad un certo punto si aprono e iniziano ad accettare di far parte del problema. La comprensione del complesso legame fra il loro atteggiamento e il disagio del figlio sblocca lo stallo.

Il loro autentico cambiamento di posizione determina infatti  (praticamente sempre) lo scioglimento del sintomo del ritiro, con conseguente possibilità di riaffacciarsi al mondo (possibilità che non ripara da fallimenti e regressioni ma che tuttavia mostra la rinascita del desiderio di trovare una collocazione possibile nella realtà)

Ancora frequente purtroppo è la situazione in cui il genitore sfugge da un lavoro su di sé assumendo egli stesso il ruolo dell’educatore e dello psicologo, che pontifica sui malesseri del figlio e sulle cure da farsi, ben felice di avere in casa il “caso patologico” di cui lamentarsi e di cui poter occuparsi all’infinito. 

Invece là dove è possibile agganciare il genitore si creano le condizioni ideali affinché anche il ragazzo chieda aiuto. 

Chiedere un supporto psicologico (e non le medicine) costituisce già un segno importantissimo della rottura del sintomo dell’auto segregazione.

Il bisogno di parlare e la sua attuazione hanno un valore prognostico importante. 

Se la domanda viene accolta nel modo corretto l’ormai ex hikikomori può iniziare un percorso psicoterapeutico verso la guarigione che avrà un vero e proprio impatto “salvavita”. 

Anche se alcune tappe importanti sono state mancate non tutto é perduto: al netto del tempo perso, occupato dal disagio, si fa strada una fiducia nuova, unitamente alla volontà di riscatto. 

 Passo dopo passo si può iniziare a vedere la luce infondo al tunnel, e grazie alla guida non direttiva del terapeuta ci si può sentire non più soli nell’impresa. 

Rapporto genitori figli, Disagio contemporaneo