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La psicoterapia e le sue fasi: dal supporto all'elaborazione psichica

Le tre fasi della psicoterapia, il suo grado di adattamento alla forza del soggetto e le dinamiche che accadono all’interno della seduta

La psicoterapia non è un trattamento standard che si adatta a tutti gli individui a prescindere dalle loro caratteristiche. In genere nei percorsi classici si verificano tre fasi, anche se ne possiamo registrare soltanto due quando la forza dell’Io di chi chiede il percorso è già molto sviluppata (e quindi si passa direttamente alla fase due) o quando si oscilla sistematicamente tra il primo e il terzo tempo. Abbiamo un primo livello in cui prevale il supporto e l’aiuto, un secondo in cui il lavoro è di natura “espressiva” e un terzo che coincide con l’uscita e con la possibilità di fare a meno del terapeuta, avendo consolidato il cambiamento e fatta propria la capacità di autoanalisi. Le dinamiche e la relazione terapeutica cambiano molto a seconda del tipo di fase che si sta attraversando. Le prime due fasi possono anche sovrapporsi o invertirsi, infatti nel corso di una cura, che avviene nel tempo, possono accadere incidenti e regressioni che richiedono un conseguente adattamento del lavoro terapeutico. 

La psicoterapia supportiva: la gestione delle crisi

Generalmente quando si arriva a chiedere aiuto a uno specialista si sta vivendo un momento di crisi, che può essere così profondo al punto da mettere in seria difficoltà la capacità di funzionare nel mondo (studiare, lavorare, mantenere relazioni con gli altri o con un partner).

La prima fase di un processo psicoterapeutico quindi spesso coincide con il recupero delle funzioni psicologiche “primarie”, ovvero di un livello di energia e di un senso di direzione sufficienti per reinserirsi nel flusso della vita e della quotidianità.

La depressione, le crisi d’ansia e gli attacchi di panico sono i sintomi psichici che più caratterizzano questo momento, in cui prevale l’urgenza di limitare il malessere.

In gioco c’è la vera e propria sopravvivenza psichica della persona che soffre, per cui la tecnica terapeutica prevede interventi supportivi in cui il terapeuta è molto attivo e assertivo.

Perché la terapia funzioni è necessario che il paziente si possa appoggiare, possa trarre sollievo dalla presenza di qualcuno disponibile ad ascoltarlo e a condividere con lui il peso delle sue angosce.

Dietro ai sintomi ci sono situazioni remote e situazioni contingenti. Queste ultime sono quelle che danno il via alle crisi acute; il terapeuta fornisce un aiuto per fare chiarezza su cosa stia succedendo qui e ora e facilita una lettura più lucida, impossibilitata dalla condizione psicologica del paziente.

Non mancano anche consigli pratici e spunti molto concreti per affrontare al meglio la realtà urticante.

In tal modo non solo si attenuano i sintomi ma si rafforza il funzionamento dell’Io, messo a dura prova dallo stress acuto. Così si gettano le basi per l’ingresso nella seconda fase della cura.

La psicoterapia espressiva: l’accesso all’elaborazione psichica dei conflitti interiori

In questa fase, il cui ingresso non è garantito e spesso è preceduto da un periodo di tempo anche piuttosto lungo, si è finalmente raggiunto quel grado di tranquillità tale da poter “mettere la testa” su tematiche più profonde e meno legate al qui ed ora della sopravvivenza. Capita anche che una terapia inizi subito a partire da questo livello, quando non ci sono sintomi molto impattanti e l'approccio è fin dal primo momento di natura conoscitiva (desiderio di conoscere se stessi, malessere moderato e controllabile attraverso difese psichiche di alto livello).

Non si tratta di un momento necessario e accessibile a tutti, molte persone una volta che si sono riprese sono soddisfatte del lavoro svolto, si ributtano nella vita e ritengono non necessario aprire ulteriormente le questioni di fondo (affrontate fin qui in maniera parziale e funzionale al superamento dell’emergenza)

Si può dire quindi che questo secondo momento non è necessario, a volte può essere auspicabile non scavare troppo, accontentarsi dei benefici ottenuti e passare direttamente alla fase conclusiva del percorso.

Sicuramente il legame col terapeuta se il secondo tempo non viene mai attraversato rimane attivo, egli resta come una figura di riferimento rassicurante da consultare nuovamente nel caso di ipotetici futuri scompensi (comunque evitabili dato che la sua funzione di stabilizzazione si spinge al di là del termine della terapia).

La psicoterapia espressiva consiste in una messa a fuoco dei nodi principali rimasti irrisolti nella propria vita, legati di solito a infanzie difficili, rapporti familiari complessi e tematiche relative alla vita sentimentale e sessuale.

L’elaborazione a questo livello si fa profonda e non resta su un piano puramente razionale. Si capiscono e si vedono fatti salienti e dinamiche intrapsichiche in modo nuovo, e piano piano il gioco di spostare il punto di osservazione o di rovesciare la figura oggetto di osservazione viene a far parte di un patrimonio personale permanente.

Non si acquisiscono solo conoscenze in più ma si impara a guardarsi dentro come mai era successo nella vita, grazie anche all’ascolto del terapeuta, ormai meno attivo ma estremamente vigile e pronto all’intervento al momento giusto.

La terza fase coincide con l’uscita dalla terapia; ormai la crisi è superata da un bel po’ di tempo, i sintomi sono diventati gestibili e si hanno gli strumenti per proseguire nel cammino di conoscenza di sè fuori dalla stanza di analisi. Un profondo e stabile cambiamento è avvenuto e si è stabilizzato, si può proseguire da soli.

La dinamica della relazione terapeutica

Si capisce allora come anche la dinamica della relazione terapeutica sia fortemente influenzata dai passaggi del paziente.

È fondamentale che il terapeuta sia in grado di leggere e di capire il mutare delle esigenze di chi sta assistendo, adattandovisi in maniera fluida.

Per riuscirci è fondamentale che sia capace di essere neutro e ricettivo,  facendo risaltare l’altro piuttosto che se stesso. Un buon terapeuta infatti possiede una mente estatica, ovvero un assetto mentale aperto all'inconscio e all'incontro con il mistero, con ciò che sta dentro se stessi ma ancora non si conosce

Il terapeuta deve cancellare la sua persona e le sue esigenze dalla scena e mettere al servizio dell'altro il suo inconscio e la propria intelligenza emotiva. Egli non deve assolutamente cercare nella cura le gratificazioni del proprio Ego. Inoltre bisogna anche che possieda quel minimo di elasticità mentale e di umiltà fondamentali per abbandonare letture e interpretazioni che non si incastrano con la vera realtà dell’altro.

Quando la fase supportiva è in atto il rapporto è più asimmetrico, perché il terapeuta conduce quasi per mano il suo paziente, spesso regredito per via della crisi che sta affrontando.

Il rapporto è quasi dell’ordine di quello fra un genitore e un figlio piccolo, bisognoso di un appoggio solido e di prese di posizioni talvolta nette da parte dell’adulto.

Via via che si esce dall’emergenza e si entra nel tempo due della cura anche il rapporto si fa più paritario. Il terapeuta ora non è più il genitore ma una figura che si interfaccia con un altro essere umano che, benchè sofferente, è capace di capire, di esprimersi, di decidere ecc…

Un errore frequente è quello di non capire il passaggio effettuato dal paziente e persistere nel fomentare anziché risolvere la regressione.

Rapporto paritario non equivale a essere amici o confondere se stessi con l’altro ma vuol dire non occupare inutilmente una posizione padronale, purtroppo ancora vizio diffuso fra molti terapeuti e motivo di insuccessi, di analisi senza fine e di percorsi senza costrutto.

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