Indecisione cronica e difficoltà terapeutiche
Già il padre della psicoanalisi collocava l’indecisione nel ventaglio dei sintomi della nevrosi ossessiva.
Se decisioni difficili richiedono per tutti pensiero e dunque anche una certa quota di procrastinazione, quando nessun tempo precede mai nessun atto risolutivo di un conflitto possiamo rintracciare i segni della patologia ossessiva.
La scelta di non scegliere viene considerata sintomatica nella misura in cui viene vissuta in maniera fortemente ambivalente da chi la opera.
Infatti non scegliere da un lato fa soffrire molto, dall’altro fa sentire al sicuro, entro il perimetro del noto.
Da una parte la persona che non prende posizione si rende lucidamente conto che l’occasione (lavorativa, amorosa, ecc…) è persa, che certe situazioni necessitavano di essere prese al volo pena un loro sfumare nel nulla.
Nello stesso tempo però permane l’illusione che tutto possa ancora venir rimesso in gioco, in un futuro imprecisato. Dal suo cantuccio protetto l’indeciso congela il tempo e fantastica la vita senza viverla. Ciò lo appaga, seppur in una maniera distorta di cui peraltro è dolorosamente consapevole, al punto tale da far prevalere tale atteggiamento su ogni possibilità di azione concreta.
Scegliere di non scegliere appare sintomaticamente come la soluzione del conflitto, in cui, restando cristallizzati infinitamente al momento che precede la scelta, si gode simultaneamente sia del sicuro che dell’incerto. Questa trovata tuttavia è solo un vagheggiamento mentale nevrotico: di fatto non scegliere vuol dire sempre scegliere. In genere si tratta di una scelta rinunciataria, in cui viene conservato il “capitale” presente e lasciato andare il guadagno possibile, ma incerto, futuro.
Rientra nel meccanismo ossessivo anche il falso movimento, ovvero la scelta apparente, parziale, provvisoria, che viene rimessa in discussione dopo essere stata fatta. Questo per un meccanismo che già Freud chiamava “annullamento” o “rendere non avvenuto” , un po’ vicino ad un pensiero magico che, incurante delle leggi della realtà, si eleva al punto tale da ritenere di poter cancellare ciò che si è scritto, di riavvolgere il nastro del tempo come se nel mentre nulla fosse cambiato irreversibilmente.
L’ossessivo infatti nutre con il tempo un rapporto singolare. Da un lato è iper consapevole della ineluttabilità del divenire, dall’altro è come cieco rispetto al mutamento, perché illuso dentro la propria statica bolla in cui tenta vanamente di fermare lo scorrere del tempo.
Dato che egli non accetta per niente lo spossessamento che gli anni operano su ciascuno di noi (il passare dei giorni ci impoverisce sempre anche se non facciamo niente, il capitale viene comunque eroso dall’inflazione) allora, anziché mettersi a vivere a pieno nel qui ed ora, si chiude a riccio in un mondo che non esiste, come fosse già un po’ morto.
E la guarigione è possibile?
È possibile allora guarire? I terapeuti tendono ad essere pessimisti, soprattuto nei confronti di persone adulte e ormai pienamente identificate nei loro sintomi. Negli adolescenti e nei più giovani è possibile invece osservare risultati spettacolari, proprio per la plasticità della loro personalità non ancora stabilizzata e cementata su certe posizioni.
Questo in linea generale, poi ci sono altri fattori, le condizioni culturali ed economiche, la salute fisica, l’ambiente di provenienza e quello in cui si vive, gli incontri ecc…Tuttavia i clinici osservano che le strutture ossessive consolidate anche nelle condizioni materiali e ambientali ideali per affrontare il cambiamento riprecipitano inesorabilmente nei loro loop mentali. Paradossalmente movimentano molto di più le situazioni oggettive di carenza e di perdita, che spingono forzatamente a risvegli anche clamorosi.
In genere la guarigione dall’ossessività non avviene mai sulla scorta di interpretazioni ben assestate al momento giusto. Queste possono infatti portare verso atti liberatori, che presto o tardi però vanno tristemente incontro a cancellazione. Il riemergere della struttura svela la componente suggestiva della relazione terapeutica e del transfert, ben fomentata da setting troppo stabili e dalle stesse strutture ossessive.
Le persone con questi tratti infatti sono molto ligie e pronte a individuare e rispondere alle aspettative degli altri; l’interpretazione, anziché bucare e far saltare le difese, viene letta come una domanda o una prescrizione comportamentale, dunque seguita nei fatti ma non sostenuta nel lungo.
Ma anche movimentare il setting e operare sedute corte, alla maniera di Lacan, se ha il pregio di rompere gli schemi e disorientare i meccanismi di controllo, va inevitabilmente incontro alle solite impasse. Dopo un po’ il paziente intercetta una routine e si adegua, diventando nuovamente impermeabile e vivacchiando in un tran tran potenzialmente infinito.
Viene da pensare allora che il segreto non stia nel tipo di trattamento (ogni approccio ha i suoi pro e contro), benché certi accecamenti e errori terapeutici grossolani possano essere evitati.
Forse ciò che può accomunare i terapeuti dei vari approcci è la consapevolezza di quanto la guarigione in toto, la così detta “restitutio ad integrum” sia una chimera e non sia da perseguire per forza.
Il furore terapeutico fa sempre da ostacolo, così come al contrario un eccesso di disimpegno e di disinvestimento nelle cure. Essi sono delle risposte alla sensazione di impotenza, nemica di ogni terapeuta eccessivamente identificato al ruolo.
Ogni persona e ogni percorso sono unici, ogni volta è tutto diverso, benché apparentemente simile. L’obiettivo in ogni caso non è “far guarire” ma dare al Soggetto (con la S maiuscola) una possibilità di espressione inconsueta, originale, nuova, raramente esperibile nella vita di tutti i giorni.
Sarà sempre lui a farsene o non farsene qualcosa, ad andare incontro a quel famoso e rivoluzionario “clic” dopo il quale tutto è diverso o, più modestamente, a conoscersi e a viversi in maniera meno lacerante e dolorosa.