Recensione di "Anatomia di una caduta"
Il film, Palma d'Oro al Festival di Cannes del 2023, della regista francese Justine Triet, offre alla categoria degli addetti alla salute mentale importanti spunti critici rispetto alla cura del disagio psicologico individuale e di coppia.
La trama e i livelli di lettura del film
La trama è molto scarna, tutta la vicenda ruota attorno al fatto di un uomo che viene trovato morto a seguito della caduta da una finestra di casa.
Il processo, volto a stabilire se si tratti di un gesto volontario, vede protagonista la moglie, imputata come possibile omicida.
L’alternanza di indagini e udienze fornisce la cornice entro cui viene offerta allo spettatore una vera e propria “anatomia di una caduta”, ovvero la ricostruzione della storia della coppia, degli eventi traumatici e delle lacerazioni personali dei suoi membri.
Il film in sè può essere letto a più livelli: un’indagine sulla proiezione della responsabilità del proprio fallimento nel partner, un’interrogazione sul ribaltamento dei ruoli di genere nella coppia, un’analisi dell’attrazione problematica fra personalità opposte, una messa a fuoco del potere deflagrante della malattia di un figlio sugli equilibri dei genitori (la coppia ha un figlio che a seguito di un incidente resta ipovedente) ecc…
Quello che interessa qui tuttavia è una riflessione sul ruolo della terapia nella prevenzione dei passaggi all’atto autolesivi.
Il protagonista, morto suicida, si sarebbe potuto “salvare” grazie al lavoro con il suo psichiatra? Avrebbe cioè potuto “non agire” la sua rabbia una volta afferratone profondamente il senso?
In una delle scene più intense del film vediamo apparire tale psichiatra, convocato in aula dall’accusa come testimone e detentore di importanti informazioni favorevoli all’ipotesi di omicidio.
Lo psichiatra esclude la tesi del suicidio (che verrà invece convalidata dalla giuria - la moglie verrà dichiarata innocente), affermando di non aver rilevato tracce nel suo paziente di alcuna ideazione suicidaria.
Egli afferma perentoriamente (trasudando manie di onnipotenza) che “se il paziente avesse avuto tali idee me ne avrebbe parlato”.
Inoltre calca la mano sulla personalità aggressiva e dominante della moglie, ritraendo fedelmente l’immagine che lo stesso paziente forniva della situazione: un uomo vittima.
Il paziente si descrive infatti come vittima del carattere forte e decisionista della compagna, costretto a dedicarsi ai lavori di casa e alla gestione del figlio per via del disimpegno di lei (tutta concentrata sul suo successo professionale), legato a un’attività lavorativa che non ama ma che “deve” svolgere per far fonte ai suoi problemi economici (sacrificando la sua ambizione di scrivere mentre la moglie al contrario è una scrittrice prolifica, stimata e riconosciuta).
Per bocca della protagonista, che durante il processo interloquisce attivamente con l’accusa, la regista del film ci fa riflettere su un punto di cui tutti gli addetti alla salute mentale dovrebbero essere edotti.
Ella, rivolgendosi allo psichiatra, gli fa presente come questi stia riportando solo una versione del problema, quella presente nei lamenti del marito. Ma essa corrisponde alla verità? La verità è quella della moglie-mostro?
Il compito della psicoterapia
Il compito di un terapeuta infatti non è mai quello di “avvallare” la versione vittimistica del suo assistito, alimentando così i suoi mostri. Tale atteggiamento, oltre che essere collusivo e far incistare il problema, risulta (come il film mette in scena) addirittura pericoloso.
Se in terapia si resta sulla superficie il paziente perde l’occasione della vita, quella di guardare alla propria esistenza senza scuse e senza la tentazione di scaricare la propria frustrazione e rabbia sull’altro.
Se manca questo tipo di profondità si perde la chance di qualsiasi evoluzione terapeutica, il paziente stesso si trova nell’impossibilità di accedere alla verità, alla comunicazione del suo “vero mondo interno” al terapeuta perché percepisce la sua sordità a riguardo.
Uccidersi in questo caso rappresenta chiaramente un atto aggressivo verso la moglie, cioè un mezzo per “farle pagare” il prezzo del proprio fallimento esistenziale tramite la “Colpa” con la C maiuscola.
Non solo il senso di colpa verso la sua morte ma anche la colpa nella sua dimensione concreta, sostanziatasi nell’accusa di un crimine.
L’uomo, prima di uccidersi, sapeva bene che la compagna sarebbe stata la principale indagata, dati i numerosi indizi a favore del coinvolgimento della donna nella vicenda (i litigi violenti della coppia registrati sul computer, la presenza della donna in casa durante il suicidio, gli screzi avvenuti appena prima del fatto).
Cosa sarebbe successo se l’uomo avesse avuto la possibilità di cambiare registro, ovvero di mettere in parola quanto fosse divorato dall’invidia? Se il curante non si fosse limitato a dirgli “poverino” non avrebbe così impedito di “legittimare” le estreme conseguenze di un atteggiamento simile?
Sentirsi in “credito” verso gli altri è sempre l’anticamera di un atto violento, perché autorizza la violenza come forma di restituzione della giustizia.
Mentre il principio di responsabilità, l’andare a vedere la propria parte, fa rinunciare alla tentazione di “scagliare la prima pietra” .
Questo vale per tutti i casi, gravi e meno gravi, e ogni terapeuta con tatto e sensibilità ha il compito di portare i suoi pazienti a indagare in se stessi quando va tutto male e i problemi si accavallano.
Guardare in se stessi non significa demolirsi, buttarsi giù, infierire su un’autostima già fragile e precaria.
Un buon terapeuta riconosce l’umanità del lamento e la legittimità del dolore, ma, con garbo e con mano leggera manovra affinché i mostri identificati nella realtà (nel partner, nella madre, nel figlio ecc..) vengano infine collocati dove devono stare, ovvero in se stessi.
L’uomo, anziché suicidarsi e mettere fine alla relazione tramite la morte, avrebbe potuto lavorare sul perché avesse scelto di legarsi a una donna dal carattere così forte, avrebbe potuto incontrare i propri punti di fragilità, la propria mediocrità di talento, e magari avrebbe potuto nel tempo farci pace, oppure separarsi, ricominciare una nuova vita.
La colpa del suicidio nel film è dunque da attribuite allo psichiatra? La risposta naturalmente è no, anche l’operazione terapeutica più virtuosa può andare incontro allo scacco, alla resistenza e alla volontà superiore del soggetto in cura.
Se non se ne vuole proprio sapere non c’è terapia che tenga.
Tuttavia la consapevolezza dei limiti dell’azione terapeutica non può tradursi in rinuncia a priori ad andare al di là dell’ovvio, pena l’inevitabile scacco e precipitazione nella distruttività.
Rapporto uomo donna, Aiuto psicoterapeutico , Disagio contemporaneo