L’amore mio è depresso?
Sempre più spesso accogliamo in studio domande (in particolare modo da parte di donne) che non hanno per oggetto l’indagare le proprie dinamiche ma che sono piuttosto finalizzate ad ottenere da parte del terapeuta una diagnosi del problema psicologico del partner.
Il problema è dell’altro?
Il profilo femminile che chiede aiuto in questo modo, mettendo fra parentesi la propria persona e le motivazioni delle proprie scelte, risulta sulle prime non analizzabile.
L’assunto di partenza è che il problema sia dell’altro, e in effetti il tratto frustrante se non francamente patologico del partner è molto presente, spesso in maniera intermittente e in contrasto con caratteristiche euforizzanti della sua personalità
Ma la supposta “malattia” dell’altro in questi casi distoglie completamente l’attenzione da se stesse, fornendo una specie di scudo che ha il vantaggio secondario di proteggere dalla dolorosa messa in discussione di sè (che si sostanzierebbe in domande del tipo: che ci faccio con uno così, perché resto in una condizione del genere ecc…?)
Voler capire il disagio dell’altro, chiedendo aiuto ad uno specialista che con il suo sapere possa “suggerire” come comportarsi, non è quindi una manovra per approfondire la verità in gioco, per togliere il velo di ingenuità e aprire gli occhi sulla realtà sottostante spiacevole e complessa, quanto un tentativo ulteriore di insabbiare le cose.
Fuga dalla terapia e ritorno
Quando il terapeuta cerca con garbo di riportare la questione sul soggetto, nella maggior parte delle situazioni vede inesorabilmente sgonfiarsi ogni interesse nel proseguire i colloqui.
Di solito questo tipo di pazienti fugge via e ritorna in terapia solo se si trova confrontato con la rottura sentimentale, subita e quasi mai ricercata volontariamente.
Il partner “tossico” per qualche motivo molla la presa, se ne va con un’altra, torna dall’ex, si trasferisce all’estero ecc…
A questo punto il dolore della perdita può innescare quell’autentico processo di ricerca prima assente, e portare a una rivisitazione della propria vita. Finalmente i punti ciechi, prima impossibili da penetrare, si lasciano esplorare. La consapevolezza guadagnata permette così di evitare la ripetizione dello stesso copione nelle relazioni future.
Di quali punti ciechi si tratta dunque in queste situazioni? Cosa si cela dietro alla volontà di persistere in un rapporto affettivamente inappagante?
Le ragioni profonde del bisogno di curare il partner
Tollerare la relazione con una personalità molto frustrante (sia essa patologica o meno), voler “curare” o “guarire” la sua indisponibilità affettiva in nome di “come mi fa stare bene quando è in buona” mostra impietosamente le carenze affettive subite in relazione alle figure di accudimento primarie.
L’amore e il rispetto di sè si imparano in prima battuta in famiglia, sulla base di come si viene curati e accuditi.
Se, come accade nei contesti disfunzionali, ci si trova a svolgere ruoli genitoriali o di partnership con i propri genitori emotivamente distanti o eccessivamente invischianti, si può erroneamente pensare che l’amore sia qualcosa che ci si deve “conquistare”, dandosi da fare e prodigandosi a senso unico per l’altro.
Alla base di questi attaccamenti vi sono dunque scarsa autostima (percezione di una propria, costitutiva non amabilità) e utilizzo di modalità di accudimento per “ottenere“ l’agognata attenzione dell’altro.
Mancanze di rispetto anche gravi vengono quindi tollerate con estrema facilità, fino al punto di sentirsi “grate” per le rare, preziose briciole ricevute. La speranza che grazie alla cura e allo zelo lui finalmente cambierà e tutto andrà per il verso giusto fa ingoiare bocconi amari.
L’idealizzazione del partner inoltre è una dinamica tipica, che serve per giustificare e non vedere una realtà ben meno romantica e ideale. Crearsi l’immagine del proprio lui sofferente e chiuso in se stesso, magari depresso ma ricco di sensibilità inespressa è un modo per romanzare e schivare l’incontro con la deludente realtà, ossia quella di uomini affettivamente aridi, lunatici, ego riferiti e al fondo disinteressati se non addirittura totalmente incapaci di amare.
La così detta “depressione” del partner a questi livelli è più che altro una comoda modalità per farsi compatire dalla donna e ridurla a cuscinetto emotivo (nulla di più lontano da una compagna a cui dedicare attenzione e continuità).
Ma ciò non è visto, le donne con una simile impostazione mentale si concentrano solo sulla depressione, fanno ricerche su internet, si informano, vanno persino dai terapeuti per farsi fare diagnosi per procura…
Il loro modo di amare ricorda allora un po’ quello delle adolescenti, innamorate dell’amore più che della persona concreta. Spesso la scarsa autostima e l’invischiamento nella famiglia di origine portano a ritardare o a differire all’infinito l’incontro con l’uomo.
Molto o troppo mature in molti altri campi della vita esse si ritrovano, per quanto riguarda l’amore, a rimanere anche in età avanzata ad uno stadio di immaturità sognante, che finisce per incastrarsi con l’egoismo e il disimpegno anch’essi infantili del partner maschile.
Ed è proprio l’immaturità a impedire di guardare la realtà per quella che è e infondo a determinare la postura di rifiuto nel prendere atto della realtà frustrante. Come accade alle bambine si perpetua un atteggiamento del tipo “lo voglio, lo voglio” anche se tutto intorno mostra che i fatti concreti non rispecchiano i desideri.
Il brusco risveglio dell’abbandono e della rottura sentimentale se da una parte risulta dolorosissimo e di difficile maneggiamento psichico può offrire anche un’occasione di crescita che porta ad esplorare le pieghe della propria personalità rimaste in ombra (alla base delle diverse debacle sentimentali accumulate negli anni).
Ogni frustrazione (e relativo dolore associato) se affrontata e guardata in faccia senza soccombere alla tentazione di far finta di niente e di ricominciare da capo esattamente dallo stesso punto di partenza, racchiude un potenziale di cambiamento enorme.
La psicoterapia in questo senso offre un sostegno ma soprattutto un ascolto non giudicante, che può mettere nelle condizioni di affrontare il proprio “peggio” senza vergogna e senza ricorrere più a meccanismi massicci di negazione e di idealizzazione.
Togliersi le bende, quando possibile, risveglia alla vita e fa capire quanto sia importante non buttare più via il proprio tempo crogiolandosi nel sogno di una relazione che di fatto non esiste.
Dare valore al proprio tempo significa dare valore a se stessi e poter vivere nella concretezza della propria esistenza qui ed ora, magari senza tanti “batticuori” ma anche senza sterili sofferenze.
Rapporto uomo donna, Aiuto psicoterapeutico