“The son”: la depressione adolescenziale
Assenza paterna e fragilità materna: un binomio insidioso per la salute mentale dell’adolescente
“The son”, recente film drammatico diretto da Florian Zeller, tocca un tema delicatissimo, quello del ruolo giocato dalla famiglia di origine nella determinazione e nel mantenimento del disagio psicologico adolescenziale.
Il film sostanzialmente presenta una sorta di “caso clinico” di frequente osservazione da parte degli operatori della salute mentale.
Abbiamo un adolescente che soffre ma che non sa dare un nome al male che lo tormenta. E dei genitori a loro volta ancora adolescenti, intrappolati nei loro egoismi e fragilità irrisolte, benché professionalmente affermati e di successo.
Non trovando le parole e i perché di questo suo male il ragazzo si ritira dalla scena scolastica e relazionale, si lascia andare a un girovagare senza meta e inizia a procurarsi dei tagli per lenire il dolore psichico insopportabile.
Tutto ciò senza che la madre o il padre si accorgano di nulla: sono le assenze da scuola ad aprire uno squarcio di osservazione angosciata sul disagio del ragazzo, che comunque continua ad essere minimizzato e trattato con modalità iper concrete, retoriche e sottilmente colpevolizzanti.
L’esito della cecità di mamma e papà purtroppo è fatale: l’adolescente muore suicida dopo che i genitori firmano il permesso per farlo uscire dal reparto di psichiatria, in cui era stato ricoverato dopo il primo tentativo di togliersi la vita.
Uno schema tipico nella depressione adolescenziale: il padre assente e l’eccesso intossicante di madre
Nella dinamica presentata all’interno del film si rintraccia uno “schema tipico”, che vede da un lato un padre assente e dall’altro una madre vulnerabile e bisognosa di conforto da parte del figlio.
Il padre, uomo pragmatico e in carriera, non è volatile solo sul piano psicologico ma anche su quello fisico. Da qualche anno ha lasciato la madre per un’altra donna, più giovane e sensuale.
Il ragazzo si ritrova dunque a vivere con la madre, subendone il lutto e identificandosi con il suo amore frustrato e la sua rabbia. Nulla si interpone fra lui e la sofferenza materna, che gli piomba addosso come un macigno.
La lacerazione interiore della madre, che la donna non nasconde ma esterna abbondantemente, gli penetra nel profondo, scavandogli dentro un dolore che la sua emotività acerba non riesce a gestire.
La separazione è così vissuta come un vero e proprio abbandono. “Ci hai scaricato come spazzatura” dirà poi al padre in un momento di crisi, mostrando apertamente la causa del suo disagio.
Il ragazzo infatti si è identificato ad un oggetto scarto, la sua depressione si spiega con il sentimento interiore di totale mancanza di valore e di nullità esistenziale. Perché vivere? Perché darsi da fare, andare a scuola, farsi degli amici se tanto si è solo un grumo di inutile dolore?
Per tentare di liberarsi dalla morsa del malessere (ingigantita dalla vicinanza alla madre dolente) chiede al padre di poter andare a vivere da lui, nell’appartamento che condivide con la nuova compagna e il figlioletto della neo coppia.
Il padre ottimisticamente acconsente a trasferire il ragazzo nella sua nuova famiglia, pensando che con la sua vita felice e perfetta potrà contaminarlo e riportarlo sulla via del successo scolastico e relazionale.
Dall'assenza paterna all'eccesso di aspettative
Nel film si susseguono dialoghi in cui questo padre, convinto di aiutare solo grazie al suo verbo, snocciola frasi piene di “dovresti” e “io alla tua età”.
Egli si pone come modello, agisce sicuramente in buona fede ma di fatto non fa che aumentare il senso di frustrazione e di incomunicabilità dell’altro.
Il suo modo di aiutare il ragazzo è iper concreto e intriso di aspettative (nonché di larvate colpevolizzazioni). Si capisce come non possa assolutamente vedere e accettare il figlio nella sua sofferenza psicologica, sovrapponendogli continuamente un’immagine idealizzata.
A sua volta questo padre non era stato accettato dal suo di padre, figura fredda e anaffettiva che aveva prodotto in lui una sorta di congelamento emotivo nel tentativo di rappresentare la perfezione e l’eccellenza.
E cos’è l’identificazione alla perfezione se non il rovescio difensivo di un sottostante e inammissibile sentimento di essere un nulla?
Il copione si ripete: nessuna elaborazione vera è stata effettuata, gli anni sono solo passati, fra silenzi e rabbia.
Pur “a fin di bene“ tutti gli atti e le parole di quest’uomo sono pieni di rigidità e violenza, la stessa che lui aveva subito dal proprio padre e che ora, con la potenza di due generazioni, si scaglia sull’ultimo arrivato.
Egli è così convinto di se stesso da non riuscire nemmeno ad intercettare la gelosia del figlio verso la compagna e il fratellino, da non capire che averlo portato nel luogo della felicità non fa altro che acuirne la dolorosa percezione di diversità e di disadattamento.
L’adolescente trova, nelle parole dure del padre (che ne scopre i fallimenti scolastici, le follie e le bugie) una drammatica, ulteriore e definitiva conferma del suo sentimento interiore di nullità.
Non resta che l’opzione del suicidio come risoluzione non solo dell’equazione impossibile della vita ma anche della fatica e della delusione paterna. Sparire, togliere il disturbo sistema le cose per tutti.
E così, se il primo tentativo di suicidio resta tale, il secondo, previsto dall’equipe medica ma ancora una volta negato come opzione dai genitori (che firmano per far uscire il ragazzo dal reparto di psichiatria in cui è trattenuto a scopo precauzionale), va a segno e risulta fatale.
Il film termina con tre sequenze significative.
La prima: i genitori sorridenti e negazionisti che, tornati a casa dall’ospedale con il figlio, si baloccano con l’idea del cinema pomeridiano.
La seconda: il rumore dello sparo e il cambio repentino di espressione sui loro volti.
La terza: il vagheggiamento del padre, che a tre anni dal suicidio si immagina di rivedere il figlio che torna dopo un lungo viaggio, pieno di vita e di successo (se lo immagina come uno scrittore che ha appena pubblicato il suo primo libro).
Neppure la morte può scalfire la pertinacia delle aspettative paterne, il cui senso di colpa resta fine a se stesso.
Il ruolo dell'amore incondizionato nella cura genitoriale
Il grande assente in questo film (oltre alla madre che risulta un personaggio piatto e sullo sfondo) è l’amore incondizionato, l’unico in grado di salvare, curare e guarire.
Ma per amare incondizionatamente l’altro per quello che è, anche nella sua incomprensibile miseria, bisogna essere liberi (o essersi liberati davvero) di ogni aspettativa di perfezione in primis in se stessi.
Fare pace con la propria lesione permette di “stare” senza “fare”, resistere nell’angoscia, sintonizzarsi ed essere gentili con l’irregolarità dell’altro (senza drammatizzarla ma nemmeno senza negarla o sminuirla).
Conoscere e integrare le proprie fragilità rende davvero adulti, forti e di sostegno per i figli.
E porta anche a essere meno egoisti e autoriferiti, a rinunciare al “diritto alla felicità” basato sull’idea naive di “rifarsi una vita” buttando via quella vecchia.
Male oscuro, Guarire dai sintomi, Oscillazioni del tono dell'umore, Adolescenza